LA
PARABOLA DELL'“IMPERO”
L'ONU E LE COLONIE ITALIANE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del
Piemonte e della Liguria” di domenica 24 ottobre 2021, pagg. 1 e 6.
Un impero di
soli cinque anni
Nascita
e crollo dell'Impero coloniale italiano sono sintetizzati in tre date.
Il 5 maggio 1936 le truppe comandate da Pietro Badoglio entrarono in
Addis Abeba, capitale dell'Etiopia. Tre giorni prima l'imperatore Hailè
Selassiè (1892-1975, cristiano copto), l'aveva lasciata. Sotto tutela
inglese, non accettò la sconfitta e costituì un governo in esilio. Il 9
maggio Benito Mussolini annunciò l'istituzione dell'Impero, in capo a
Vittorio Emanuele III Re d'Italia. Il 5 maggio 1941 Hailè Selassiè
rientrò in Addis Abeba, con l'appoggio dei britannici. Pochi giorni
dopo, prima, il 17 maggio, questi ottennero la resa (con gli
onori delle armi) degli italiani da un mese asserragliati sull'Amba
Alagi agli ordini del viceré d'Etiopia, Amedeo di Savoia, III Duca di
Aosta, deportato in un campo di concentramento in Kenia, ove morì. Una
“parabola”, la sua, ripercorsa da Dino Ramella in “Il Duca d'Aosta e
gli Italiani in Africa Orientale” (ed. Daniela Piazza).
Il cammino dell'Italia sulla via dell'Impero fu segmentato. L'11-14
aprile 1935 si svolse a Stresa, sul Lago Maggiore, la conferenza
diplomatica anglo-franco-italiana. Occorreva arginare l'aggressività
della Germania. Hitler, forte dei pieni poteri dopo la morte di
Hindenburg (2 agosto 1934), era deciso a realizzare la “grande
Germania”: annessione dell'Austria e avocazione dei germanofoni
assegnati dai Trattati di pace (Versailles e Saint-Germain, 28 giugno e
10 settembre 1919) a Stati sorti dalla dissoluzione degli imperi
germanico e austro-ungarico. Per la Francia il revanscismo tedesco
faceva intravvedere la rivendicazione dell'Alsazia e della Lorena e
altro ancora: una guerra secolare.
Un percorso
sinuoso
Dopo
reciproci atti ostili e tentativi di mediazione da parte della Società
delle Nazioni (SdN, con sede a Ginevra), il 3 ottobre 1935 il governo
di Roma dichiarò guerra all'imperatore d'Etiopia, “cugino del re” da
quando Vittorio Emanuele III gli aveva conferito il Collare
dell'Annunziata. Poiché l'Etiopia, uno dei rari Stati africani
indipendenti, era membro della Società, ne ottenne la solidarietà. Il
10 ottobre la SdN deliberò sanzioni economiche contro l'Italia a
decorrere dal 18 novembre. In previsione il governo di Roma aveva
attivato linee di rifornimento delle materie prime indispensabili per
la produzione industriale e per l'approvvigionamento alimentare, ancora
lontano dall'autosufficienza malgrado dieci di anni di “battaglia del
grano”.
L'“assedio delle Nazioni”, come le sanzioni
furono dette, fornì a Mussolini il destro per una gigantesca campagna
d'opinione a sostegno del regime, identificato con lo Stato. La
raccolta dell'“oro alla patria”, ottenne adesione universale, dalla
regina Elena ad antifascisti come Benedetto Croce. Altri avversari del
fascismo rientrarono in Italia dall'esilio, previe trattative con
Mussolini. Fu il caso di Arturo Labriola, già ministro del Lavoro nel V
governo Giolitti (1920-1921) e nel 1930-1932 gran maestro del Grande
Oriente d'Italia costituito in Francia.
La
proclamazione dell'Impero irritò quasi tutti i governi europei, la
maggior parte dei quali, a cominciare da Gran Bretagna e Francia da
secoli vantava vastissimi domini coloniali. Il re del minuscolo Belgio
dal 1885 possedeva l'immenso Congo. L'Olanda aveva l'arcipelago delle
Indie Orientali. Il Portogallo dominava Angola, Mozambico ed enclaves
in India, di concerto con la Gran Bretagna che aveva propiziato la
restaurazione della sua indipendenza dalla Spagna nel remoto 1640.
Spogliata del vastissimo impero coloniale nell'America
centro-meridionale, nel 1898 Madrid aveva perso anche Cuba e le
Filippine a beneficio degli Stati Uniti d'America, ma combatteva per
riaffermare il suo dominio sul Marocco. Il possesso di imperi non
costituiva solo una risorsa economica ma anzitutto un'affermazione
politica.
Privata del cospicuo impero coloniale
(Tanganika, Togo, Camerun, Africa del Sud-Ovest...) all'indomani della
Grande Guerra, la Germania non aveva motivo di osteggiare l'espansione
italiana nell'Africa orientale. Poiché incontrava l'ostilità dei
franco-britannici avrebbe costretto Roma ad accostarsi a Berlino, anche
senza bisogno delle convergenze ideologiche affastellate nel 1938
(antisemitismo compreso), premessa del Patto d'Acciaio.
Le geografia
detta la storia: gli antecedenti
L'impero
proclamato il 9 maggio 1936 fu dunque l'ultimo in ordine cronologico
tra quelli degli Stati europei. Nacque sulla scia della politica
coloniale avviata dal regno d'Italia ancor prima dell'inaugurazione del
Canale di Suez. Fu la Sinistra Storica, erede di Mazzini e Garibaldi, a
dar corpo all'“impresa”. Lo volesse o meno, l'Italia era al centro del
Mediterraneo per metà ancora turco-ottomano. Una volta unificata, non
poteva tenersi fuori dalla lotta per la spartizione degli spazi
afro-asiatici. A scatenare la gara fu la Francia. Napoleone III allungò
le mani sulla Cocincina ancor prima di sconfiggere l'Austria nella
pianura padana essendo alleato di Vittorio Emanuele II, mentre con la
cinica “guerra dell'oppio” la Gran Bretagna aveva messo le grinfie sul
Celeste Impero e sanguinosamente represso la rivolta degli indiani. Nel
1881 Parigi impose il protettorato sulla Tunisia, irritando Garibaldi e
la Sinistra, incluso il gran maestro del Grande Oriente d'Italia,
Adriano Lemmi. La Francia a Tunisi era causa immanente di guerra:
termine dai giornali modificato in imminente.
Dopo
lunghe tergiversazioni Roma varcò il Rubicone, con lo sbarco a Massaua,
sulla costa del Mar Rosso (1885), un anno dopo l'ingresso dei fanatici
seguaci del Mahdi in Khartoum, ove il governatore Charles George Gordon
fu barbaramente assassinato. La costituzione della colonia di Eritrea
(1890, affidata al governatore civile Ferdinando Martini che ne scrisse
in L'Affrica italiana), la conquista della Somalia (elevata a colonia
nel 1907) e quella di Tripolitania e Cirenaica (1911-1912), deliberata
da Vittorio Emanuele III che dettò a Giolitti il calendario delle
operazioni, furono le tappe dell'espansione vaticinata anche da
Giuseppe Mazzini per la realizzazione della “missione civile ”
dell'Italia. Il caso della Libia fu paradigmatico. Non se ne poteva
fare a meno se non a rischio di vedersela sottrarre da altre potenze
europee. La dichiarazione della sovranità italiana su Tripoli e Bengasi
chiuse il cerchio di un programma avviato dalla Sinistra storica con
Agostino Depretis (1876-1887) e Francesco Crispi (1887-1891 e
1893-1896), travolto dal disastro del corpo di spedizione comandato da
Oreste Baratieri ad Abba Garima, presso Adua (1° marzo 1896),
sbaragliato dal caotico esercito del negus Menelik: una sconfitta che
pesò a lungo sull'opinione pubblica e sul desiderio di rivincita.
Il programma
di Mussolini
Nel
discorso pronunciato all'Augusteo di Roma il 9 novembre 1921 per la
fondazione del Partito nazionale fascista Mussolini percorse
rapidamente gli antecedenti della politica estera italiana e prospettò
mete e metodi. A parte la “questione di Fiume”, più in generale
dell'Adriatico e quindi dell'Albania, materia incandescente, ricordò:
“Durante gli ultimi decenni di travaglio nazionale l'Italia ebbe un
uomo solo (…) Parlo di Francesco Crispi. Egli solo seppe proiettare
l'Italia nel Mediterraneo con anima e pensiero imperialistico. Ma
quando parlo di imperialismo non intendo riferirmi a quello prussiano;
intendo un imperialismo economico di espansione commerciale...”.
Secondo Dino Grandi il congresso era “la prefazione di un grande libro”
che la generazione successiva avrebbe scritto. “Il mito deve prepararsi
a diventare storia”. La politica estera sarebbe stata il vero banco di
prova del fascismo.
Mentre nel corso della Grande
Guerra Luigi Cadorna aveva affermato che l'Italia avrebbe
(ri)conquistato la Libia sul Carso, Mussolini ritenne che solo la
conquista dell'Etiopia avrebbe affermato l'Italia quale protagonista
nel “grande gioco degli imperi” acutamente analizzato da Giorgio De
Rienzo. All'opposto, dai primi mesi dell'intervento in guerra contro
Gran Bretagna e Francia (10 giugno 1940) risultò chiaro che l'Italia
rischiava di perdere il rango di grande potenza proprio perché non era
in grado di difendere l'impero coloniale, a cominciare, appunto
dall'Africa Orientale. Le forze armate avevano bisogno di essere
alimentate dalla madrepatria.
L'ONU e
l'amara sorte delle colonie (1943-1955)
Senza
entrare nel merito né della guerra d'Etiopia (3 ottobre 1935-5 maggio
1936) né delle vicende belliche concluse con il rientro di Hailè
Selassiè in Addis Abeba, merita attenzione la sorte delle colonie
italiane tra la sconfitta dell'estate 1943 e la vigilia dell'ingresso
dell'Italia nell'Organizzazione delle Nazioni Unite, nel 1955. Se ne
parla nel volume XV° di “Il Parlamento Italiano, 1861-1992” (ed. Nuova
Cei). In quel dodicennio i governi italiani brigarono invano per
rivendicare le colonie. Il terzo punto della Carta atlantica (1941),
infatti, aveva affermato che gli Alleati “rispettano il diritto di
tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale
desiderano vivere e intendono che diritti sovrani e governo autonomo
vengano restituiti a coloro che ne sono stati privati con la forza”.
Era il caso dell'Etiopia.
I vincitori non si lasciarono
abbagliare dalla modesta e discussa vittoria repubblicana sulla
monarchia il 2-3 giugno 1946 né dalla rivendicazione della
cobelligeranza contro i nazi-fascisti e neppure dalla “guerra
partigiana”. L'Italia rimase esclusa dall'ONU. Il mortificante Trattato
di pace imposto a Parigi il 10 febbraio 1947 incluse esplicitamente la
completa rinuncia di Roma a tutti i territori d'Oltremare, quali ne
fossero l'epoca della conquista e lo status. La mancata sottoscrizione
del Trattato da parte dell'URSS aprì uno spiraglio. I governi De
Gasperi archiviarono qualsiasi “nostalgia” di impero, cancellarono
tanta parte della storia recente e antica anche con la
“defascistizzazione” dei programmi scolastici, della toponomastica,
dell'intitolazione di istituti ed edifici pubblici (a imitazione del
precedente regime), ma non poterono ignorare le sorti dei militari
ancora prigionieri e degli italiani ammassati in campi “per profughi”.
Il 16 settembre 1947, quando il Trattato di pace entrò in vigore, De
Gasperi fece sentire la sua “voce accorata ma ferma anche negli
accampamenti dei profughi dell'Africa e fra gli italiani rimasti nelle
antiche colonie, che furono rinnovate economicamente ed elevate a
civiltà dal tenace lavoro e dal duttile ingegno dei nostri
colonizzatori”. Auspicò che “a nome di tutti” l'Italia potesse
continuare la sua opera “onde preparare i popoli nativi
all'autogoverno”. Quei “tutti” erano i diciotto Stati vincitori, tra i
quali figuravano l'Ucraina e la Bierlorussia.
Il 25 marzo
1948, alla vigilia delle elezioni che sancirono la vittoria della
Democrazia cristiana sul Fronte popolare social-comunista, per
confutare l'accusa che l'URSS fosse il principale ostacolo al
riconoscimento del ruolo dell'Italia Oltremare il segretario del PCI,
Palmiro Togliatti, chiese che la Gran Bretagna mostrasse la sua
amicizia verso l'Italia non sulla questione (per lui imbarazzante) del
confine italo-jugoslavo ma dichiarando “di essere d'accordo che
rimangano all'Italia le sue vecchie colonie”.
Malgrado
le denunce di neocolonialismo lanciate da Gaetano Salvemini, Ernesto
Rossi, Riccardo Lombardi e altri, l'apposita Commissione quadripartita
delle Grandi Potenze incaricata di verificare le condizioni delle ex
colonie italiane concluse che le loro popolazioni rivelavano grave
carenza di preparazione politica e assoluta dipendenza sul piano
economico. Perciò andavano “assistite” da un Paese in grado di
promuoverne lo sviluppo. Chi meglio dell'Italia, che vi aveva profuso
capitali e posto radici profonde più di quanto avessero fatto altri
Stati europei nei loro domini afro-asiatici? Ministro degli Esteri
nell'ult governo Giolitti (1920-1921) e nuovamente con De Gasperi,
Carlo Sforza propose di affidare l'Eritrea a un mandato collettivo
europeo (anche per sottrarla alle mire plurisecolari dell'Etiopia) e di
erigere la Tripolitania a Stato indipendente ma unito all'Italia da
“atto contrattuale”. La necessità di tenere sotto controllo la “quarta
sponda” aveva una motivazione che andava molto oltre gli interessi
nazionali esclusivi di Roma. In caso di aggressione dell'Europa
centro-occidentale da parte dell'Urss la Libia sarebbe stata la base
per la riorganizzazione delle forze armate, come lo era stata l'Africa
nord-occidentale nel 1942-1943 per l'offensiva contro l'Asse
italo-germanico. In pochi anni la “guerra fredda” mutò gli scenari
planetari, a vantaggio dell'Italia che, per iniziativa di Vittorio
Emanuele III e di Badoglio, si era arresa agli anglo-americani: i
nemici più “comprensivi”, garanti della sua integrità territoriale.
Il 5-6 maggio 1949 Sforza concordò con il ministro degli
Esteri
britannico Ernest Bevin la tripartizione della Libia sotto una guida
comune anglo-franco-italiana, la divisione dell'Eritrea tra Etiopia e
Sudan (inglese) e l'assegnazione della Somalia all'Italia in
amministrazione fiduciaria su mandato dell'ONU. L'Assemblea generale
però il 17 maggio respinse il piano con un solo voto di scarto:
precisamente quello di Haiti, che non era una grande potenza.
Il 21 novembre 1949 andarono deluse le speranze del governo De Gasperi,
comprendente democristiani, socialdemocratici (con Giuseppe Saragat
vicepresidente), repubblicani (l'atlantista Randolfo Pacciardi alla
Difesa) e liberali (Porzio vicepresidente, dopo l'elezione di Einaudi
alla presidenza della Repubblica). L'Assemblea dell'ONU con 49 voti
favorevoli e nove astenuti raccomandò di elevare la Libia a Stato
sovrano entro il 1° gennaio 1952 e di affidare la Somalia in
amministrazione fiduciaria all'Italia per la durata di dieci anni sotto
la sorveglianza di un Consiglio formato da Egitto, Colombia e
Filippine, tre Stati dal non specchiatissimo abito civile. A Mogadiscio
l'11 gennaio dell'anno precedente si erano verificati “gravissimi
incidenti” nell'inerzia della British Military Administration: 52
italiani vennero linciati e moltissimi altri feriti da parte dei
“Giovani Somali”. Ne hanno scritto Annalisa Urbano e Antonio
Varsori in “Mogadiscio 1948. Un eccidio di italiani fra
decolonizzazione e guerra fredda” (il Mulino). Per assicurarvi l'ordine
pubblico Pacciardi chiese di inviare un corpo di 6500 militari ma De
Gasperi gli osservò che a suo tempo il quadrumviro Cesare Maria De
Vecchi l'aveva governata in piena sicurezza con soli 4271 uomini,
comprendenti appena 71 italiani, pochi ma sufficienti.
Episodi altrettanto funesti si erano verificati in Libia, ove il 4 e 7
novembre 1945 la comunità ebraica fu vittima di un massacro a opera di
islamici fanatici: circa 140 vittime, incendio di sinagoghe, violenze
ai danni di donne sposate e adolescenti. I “liberatori” non garantirono
agli ebrei la tranquillità assicurata dal governatore Italo Balbo, il
quadrumviro massone nettamente contrario alle leggi antisemite. Anche
l'Eritrea fu teatro dell'assassinio di alcuni italiani. Il 25 novembre
1949 essa venne “federata” con l'Etiopia sotto la corona del negus che
ebbe il controllo di esteri, difesa, moneta, finanze, commercio e
comunicazioni. In tal modo l'Italia perse definitivamente ogni legame
con la sua prima colonia, come del resto previsto dal Trattato di pace
del 10 febbraio 1947. I suoi articoli 23, 33 e seguenti dettarono gli
obblighi di Roma nei confronti dell'Etiopia. Il paragrafo 1
dell'allegato XIV del Trattato tagliò netto: l'Italia rinunciava a
“rivendicare qualsiasi interesse speciale o qualsiasi influenza
particolare in Etiopia”. In forza dell'articolo 37 Roma era tenuta a
restituire “tutte le opere d'arte, tutti gli oggetti religiosi, gli
archivi e gli oggetti di valore storico appartenenti all'Etiopia o a
suoi cittadini, asportati dall'Etiopia dopo il 3 ottobre 1935” e a
pagare l'astronomica indennità di 185 milioni di sterline, ridotti a
6,25 milioni dopo un negoziato durato dieci anni.
La parabola dell'Impero
La
formazione del dominio coloniale italiano (nominalmente impero per la
durata di appena un quinquennio) non fu frutto di improvvisazione ma di
una visione politica di lungo periodo. Essa però venne drasticamente
rimossa dalla memoria, quasi costituisse una vergogna, una macchia
indelebile. Del tutto estrapolata dal contesto storico, rimase ai
margini dell'attenzione storiografica, a parte opere polemiche (come
quelle di Angelo Del Boca) che ne denunciarono gli aspetti più cruenti
quasi siano stati gli unici avvenuti nel corso dell'espansione
coloniale europea e degli imperialismi di Giappone, Cina e Urss.
Paradossalmente si contano più opere di condanna del colonialismo
italiano (ultimo venuto, anacronistico, ecc.) che sulla
decolonizzazione di cui furono protagonisti Francia, Gran Bretagna,
Olanda e Belgio. Motivo in più per tornare a riflettere sulla politica
estera dell'Italia prima e dopo quel Trattato di pace che proietta la
sua ombra lunga anche sull'Italia odierna, bisognosa di recuperare il
“senso della Storia”, tutt'uno con quello “dello Stato”.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: La Stele
di Axum. Emblema e
sintesi del percorso segmentato dell' “imperialismo italiano”,
trasportata in Italia e restituita all'Etiopia dopo lunghe polemiche.
Oggi l'Etiopia è devastata da una feroce guerra intestina che ricalca
quelle dei secoli precedenti la colonizzazione italiana. Ma poco se ne
legge nei “media”.
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