Dopo
oltre settant'anni di esilio, nel 2017 la Salma del Re Vittorio
Emanuele II, assiema a quella della Regina Elena, è stata riportata in
Italia. Luogo della tumulazione dei due Sovrani, il monumentale
Santuario-basilica di Vicoforte, in provincia di Cuneo, fatto erigere
alla fine del 1500 dal Duca di Savoia Carlo Emanuele I e
originariamente concepito per essere il mausoleo della Famiglia.
All'interno del Santuario, nella Cappella di San Bernardo, sono state
costruite le due tombe per far riposare in Patria i due Sovrani.
Riproponiamo
le comunicazioni del Presidente della Consulta dei Senatori del Regno
riguardanti lo storico evento, la cronaca della visita di S.A.R. la
Principessa Maria Gabriella di Savoia, accompagnata dalla figlia
Elisabetta De Balkany, alle tombe reali e un articolo sulla figura del
Re Vittorio Emanuele III che ora, finalmente, riposa in Italia.
Le
tombe del Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena nella cappella
di San Bernardo
La
tomba del Re Vittorio Emanuele III a Vicoforte
La
tomba della Regina Elena a Vicoforte
VITTORIO EMANUELE III E' IN ITALIA
Onorevoli Colleghi,
informo che la sera del 16 dicembre 2017 la Salma di Vittorio Emanuele
III fu estumulata in forma privata dall'Altare della Cattedrale di
Santa Caterina in Alessandria d'Egitto, presente il Delegato della
Famiglia, conte Federico Radicati di
Primeglio.
Trasferita con aereo militare all'aeroporto di Levaldigi (Cuneo) la
mattina del 17, Essa venne portata al Santuario-Basilica della Natività
di Maria SS. in Vicoforte (Cuneo), ove pervenne avvolta nella
bandiera del Regno d'Italia e fu ritumulata, nella Cappella di San
Bernardo, che alle 19 del 15 dicembre aveva accolto la Salma della
Regina Elena.
Presenti quattro
Carabinieri, un caporalmaggiore degli Alpini suonò il Silenzio.
La benedizione è stata impartita dal Rettore del Santuario-Basilica,
Mons. Meo Bessone. Al Rito hanno assistito il Prefetto
Vicario di
Cuneo, dott.ssa Maria Antonietta Bambagiotti, il conte Federico
Radicati di Primeglio, delegato della Famiglia, il presidente della
Consulta dei Senatori del Regno, il cav. Maurizio Bettoja, che ne ha
curato la forma e ha recato la Corona del Regno d'Italia, e il sindaco
di Vicoforte, Valter Roattino.
Al termine, il conte Radicati ha dichiarato pubblicamente che la
traslazione delle Auguste Salme è stata effettuata in forma riservata,
come a suo tempo convenuto con S.E. Mons. Luciano Pacomio, Vescovo di
Mondovì, che il 22 aprile 2013 acconsentì ad accogliereLe su istanza di
S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di Savoia e del
presidente
della Consulta.
Il
presidente della Consulta, rinnovò l'espressione della profonda
gratitudine al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che
accolse il voto il 10 maggio 2017 rivoltogli dal Principe Vittorio
Emanuele e dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia, anche a nome
delle Sorelle, a congiungere le Auguste Salme nella Patria che tanto
amarono, in vista del 70° della morte di Vittorio Emanuele
III e
del Centenario della Vittoria ella Grande Guerra.
Dal 17 dicembre 2017 chi voglia rendere omaggio al Re Soldato e alla
Regina Elena potrà farlo in Italia.
Quod erat in votis.
Vicoforte, 17 dicembre 2017
Aldo Alessandro Mola
Presidente della Consulta
dei Senatori del Regno |
LA MISSIONE
Onorevoli Colleghi,
nella Seduta del 19 marzo 2011, presso la Provincia di Roma, ove
rievocammo il 150° del Regno d'Italia presenti le LL.AA.RR. la
Principessa Maria Gabriella di Savoia, il Principe Amedeo di Savoia,
Capo della Real Casa di Savoia, con la Consorte Duchessa Silvia, e il
Principe Aimone, Duca delle Puglie, su argomentata proposta del
presidente e assenziente S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di
Savoia, custode della Memoria della Casa, la Consulta
individuò
nel Santuario-Basilica della Natività di Maria SS. in
Vicoforte
(Cuneo) la sede più idonea per congiungere in Italia le Auguste Salme
di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.
Quale Presidente assunsi l'onere della realizzazione del voto,
perseguendola nei tempi e nei modi via via necessari, partendo
dall'organizzazione dell' “Incontro Umberto II” nel trentennale della
morte di Umberto II (Vicoforte, 18 marzo 2013), i cui atti
furono
pubblicati.
Di concerto con S.A.R. la
Principessa proponemmo il voto a S.E. il Vescovo di Mondovì, Mons.
Luciano Pacomio, e al Rettore del Santuario-Basilica di Vicoforte,
Mons. Don Meo Bessone: accogliere le spoglie del Re e della Regina nel
Mausoleo nel 1596 voluto dal Duca Carlo Emanuele I (capolavoro di
Ascanio Vitozzi e di Francesco Gallo e Monumento Nazionale). Il Vescovo
acconsentì con lettera del 22 aprile 2013 indirizzata a S.A.R. la
Principessa e alla Consulta, nelle persone del presidente e del
Vicepresidente, conte Alessandro Cremonte
Pastorello. Da
allora, a piccoli passi e con la discrezione raccomandata da S.E. il
Vescovo e dettata dalla necessità di non essere intralciati da
argomenti e atteggiamenti speciosi, ci si è avviati alla meta.
Ringrazio quanti hanno confortato nel lungo e spesso arduo
cammino: in primo luogo S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di
Savoia, da dieci anni Componente della nostra Associazione. Un
ringraziamento sentito al Vicepresidente anziano, conte Cremonte
Pastorello, al Segretario, Gianni Stefano Cuttica, e al
Collega
Consultore e fraterno amico, Luca Fucini, che il 15 dicembre
2017
ha rappresentato la Casa e la Consulta alla estumulzione del feretro
della Regina Elena nel cimitero Saint-Lazare di Montpellier, con
destinazione il Santuario-Basilica di Vicoforte Mausoleo dei Savoia,
ove giunse, fu benedetta da Mons. Bessone e ritumulata in forma
privata.
Come noto, il 28 dicembre p.v., dalle
11.30 alle 12, la Consulta rende omaggio a Vittorio Emanuele III e alla
Regina Elena nella Cappella di San Bernardo del Santuario-Basilica di
Vicoforte, Mausoleo dei Savoia e Monumento nazionale.
L'occasione mi è propizia per porgere a tutti, Onorevoli, Colleghi,
fervidi auguri di serene Festività Natalizie.
Torre San Giorgio, 15 dicembre 2017
Aldo Alessandro Mola
Presidente della Consulta
dei Senatori del Regno |
S.A.R. LA PRINCIPESSA MARIA
GABRIELLA DI SAVOIA
AL MAUSOLEO DEI SAVOIA IN VICOFORTE (17 aprile 2018)
Martedì
17 aprile 2018, su invito del Rotary Club 1925 di Cuneo, S.A.R. la
Principessa Maria Gabriella di Savoia, con Sua Figlia, Elisabetta De
Balkany, ha reso omaggio alle Salme dei Nonni, Vittorio Emanuele III e
la Regina Elena, nella Cappella di San Bernardo del Santuario-Basilica
di Vicoforte (CN), ove furono tumulate il 15 e 17 dicembre 2017. La
Principessa ha raggiunto il Mausoleo dei Savoia accompagnata dal conte
Federico Radicati di Primeglio, Delegato della Casa per tutti gli atti
connessi a estumulazione, traslazione e ritumulazione delle RR. Salme,
dal suo consulente, prof. Aldo A. Mola, presidente della
Consulta, dal Consultore cav. Maurizio Bettoja, che concorse agli Onori
resi il 17 dicembre alla Salma del Re, e dal Consultore avv. Luca
Fucini, delegato alla estumulazione della Salma della Regina Elena a
Montpellier, il 15 dicembre 2017.
All'ingresso del Santuario
S.A.R. la Principessa e Sua Figlia sono state accolte dal presidente
del Rotary Cuneo 1925, avv. Gianmaria Dalmasso (presidente anche
quando, il 13 giugno 2006, S.A.R. presenziò in Villanova Solaro, CN,
alla rievocazione di Re Umberto II nel 60° della Sua partenza
dall'Italia e fu nominata Socio onorario del Club), dai presidenti dei
Club di Mondovì e Savigliano e da rappresentanti di quello di Saluzzo;
dal Presidente del Rotaract Cuneo Provincia Granda, nonché da folto
pubblico, comprendente, tra altri, il Consultore avv. Giovanna
Giolitti, il Presidente della Associazione di studi storici Giovanni
Giolitti, Alessandro Mella e l'ex sindaco di Torre San Giorgio, avv.
Attilio Mola.
Dopo l'omaggio alle Reali Tombe (Mola e
Dalmasso hanno deposto una corona d'alloro con le scritte "Senato del
Regno-S.A.R. Maria Gabriella di Savoia" mentre la Principessa ha recato
un mazzo di viole di campo alla Regina Elena, come soleva fare Re
Vittorio Emanuele III) e a quella del Duca Carlo Emanuele I di Savoia,
fondatore del Santuario, il Rettore della Basilica, il benemerito
Monsignor Meo Bessone, ha guidato il raccoglimento in preghiera e una
breve visita allo spettacolare Monumento Nazionale, che vanta la cupola
ellittica più imponente d'Europa.
E' seguito il ricevimento nel cui corso Aldo Mola ha intrattenuto
brevemente i circa 150 commensali su "Memoria di Vittorio Emanuele III
e della Regina Elena nel Centenario della Vittoria (1918)", presenti,
fra altri, il colonnello Antonio Zerrillo, del Comando Esercito
Piemonte, che sovrintende alle iniziative memoriali sulla
Grande
Guerra, e il sindaco di Vicoforte, Valter Roattino, il prefetto a
riposo Tancredi Bruno di Clarafond.
Nelle interviste
rilasciate al TG3, a Rete4 (Telecupole), a La Stampa e a numerose
testate locali S.A.R. la Principessa ha ricordato l'opera del
Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per la traslazione
delle Reali Salme in Italia e precisamente a Vicoforte, definendolo
"splendido mausoleo di Casa Savoia", come già aveva dichiarato S.A.R.
il Principe Amedeo di Savoia, Duca di Savoia e di Aosta, il 16 marzo
2013 in occasione del Convegno "Incontro Umberto II" in Vicoforte.
Il Presidente della Consulta, Aldo Mola, ha recato a S.A.R. la
Principessa Maria Gabriella di Savoia e a Sua Figlia Elisabetta
l'omaggio dei colleghi (Alessandro Cremonte Pastorello,
Giorgio
Blais, Gianni Rabbia, Gianni Stefano Cuttica, Giuseppe Tarò...) che,
nell'impossibilità di presenziare di persona, gliene avevano dato
incarico.
VITTORIO EMANUELE III
Vittorio
Emanuele III morì 70 anni orsono ad Alessandria d'Egitto. Era il 28
dicembre 1947. Tre giorni dopo entrò in vigore la Costituzione della
Repubblica italiana. Il Re aveva abdicato il 9 maggio dell'anno
precedente. Morì cittadino italiano di pieno diritto, già capo di Stato
e delle forze armate di terra e di mare. Re Farouk d'Egitto gli rese
gli onori dovuti al suo rango. Un giorno il sovrano confidò al suo
aiutante di campo, generale Paolo Puntoni, che i Savoia non avevano
avuto molta fortuna. Il primo regnante del suo ramo, Carlo Alberto di
Sardegna, aveva promulgato lo Statuto, riconosciuto libertà e
uguaglianza di diritti per tutti i regnicoli, impugnato la “bandiera
tricolore italiana” nella guerra del 1848-1849 contro il potentissimo
impero d'Austria. Sconfitto nella “brumal Novara” il 23 marzo 1849, era
morto in esilio, a Oporto, col nome di conte di Barge, piccolo comune
prealpino del Cuneese. Suo padre, Umberto, era stato assassinato a
Monza il 29 luglio 1900. Solo suo nonno, Vittorio Emanuele II, era
stato celebrato “Padre della Patria”, ma aveva conosciuto più amarezze
che gioie, il “brut fardèl” del potere. Molto prima di dar vita al
regno d'Italia, era stato scomunicato da Pio IX come tutto il suo
governo e con quanti avevano votato leggi che oggi anche i papi e il
clero cattolico giudicano di mero buon senso. Ma quelli erano i tempi.
I sacerdoti che assolsero Camillo Cavour e suo nonno in punto di morte
vennero puniti. Poi era toccato a lui, Re borghese per gli
uni,
socialista per altri, “Re Soldato” nella Grande Guerra, “re fascista”
secondo molti polemisti e anche secondo storici che proposero il
“ventennio mussoliniano” quale diarchia, non nera dittatura, ma
privilegiarono il duce rispetto alla monarchia.
Vittorio
Emanuele III morì col titolo di conte di Pollenzo, una borgata nella
valle del Tanaro ricordata per la vittoria di Stilicone sui Visigoti di
Alarico (402 d. Cr.). Fautore dell'Istituto Internazionale per
l'Agricoltura (Roma, 1908), per decenni vi aveva curato personalmente
poderi sperimentali. Alla sua morte, il figlio, Umberto, sovrano leale
e rassegnato, a sua era volta all'estero, a Cascais, come conte di
Sarre. Il 13 giugno 1946 aveva lasciato l'Italia (non la Patria, tenne
a precisare) protestando contro il “gesto rivoluzionario” del governo
che attribuì al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi,
le
funzioni di Capo dello Stato prima che fossero noti in via definitiva i
risultati del referendum sulla forma dello Stato. In vigore dal 1°
gennaio 1948, proprio durante i funerali del “Re Soldato”, la
Costituzione della Repubblica interdisse a lui e ai
discendenti
maschi il rientro e il soggiorno in Italia. Iniziò il suo esilio
infinito, sofferto sino al 18 marzo 1983, quando morì a Ginevra. Per
sepolcro volle l'Abbazia di Altacomba, in Savoia, culla della dinastia.
Nella più recente biografia il francese Frédéric
Le Moal si domanda perché il giudizio su Vittorio Emanuele
III
rimanga ancora lontano dalla pacatezza storiografica. Malgrado
debolezze, errori ed omissioni, “Vittorio Emanuele III merita qualche
cosa di più di un processo senza fine” (1). Forse la sepoltura nella
chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d'Egitto ha concorso a renderlo
più lontano dal Paese, immeritevole di memoria a tutto tondo, sempre
più sbiadito, anzi, e schiacciato da polemiche interminabili. Motivo in
più per evocarlo nel 70° della morte, non per apologia cortigiana (la
schivò sempre da vivo) né tardive quanto inutili “assoluzioni”, ma per
aprire il confronto critico sulla sua figura, che è tutt'uno con mezzo
secolo della storia d'Italia.
Vittorio Emanuele
III regnò quarantasei anni. Non aveva affatto premura di salire al
trono. Accettò la corona perché suo padre, Umberto I, fu assassinato da
un complotto internazionale che utilizzò un anarchico per innescare in
Italia il corto circuito reazione-rivoluzione. Calcò la corona perché
non volle si pensasse che un Savoia è vile. Rispose alle attese del
Paese che chiedeva pace interna e sicurezza ai confini. Nel 1911 le
feste del Cinquantenario del regno evidenziarono gli enormi progressi
compiuti dal Paese in ogni settore della vita pubblica e privata. Per
molti aspetti l'Italia era all'avanguardia culturale e civile nel
mondo.
Cresciuto nel culto della storia e formato
alla disciplina nel Collegio Militare della “Nunziatella”, il
trentunenne principe di Napoli ascese al trono per dovere verso
l’Italia, divenuta regno appena quarant’anni prima e riconosciuta dalla
Comunità internazionale solo nel 1867. Sposato nel 1896 con Elena
Petrovic-Niegos, principessa di Montenegro, e ancora senza figli,
Vittorio Emanuele III dette costante esempio del freddo coraggio che fu
tratto distintivo della sua persona.
Erudito, dotato di memoria
formidabile, sempre padrone di sé sino ad apparire glaciale, cercò
subito il consiglio di uomini saggi e indipendenti. Il senatore
Pasquale Villari, antico massone, da lui sollecitato a parlare con la
franchezza che si deve al sovrano, gli consigliò di cacciare
a
pedate i cortigiani e di fare di testa sua. Identici suggerimenti gli
dettero le più apprezzate personalità consultate. La
monarchia si
fondava sullo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto,
patto irrevocabile tra il sovrano e la nazione. Il re non era superiore
alle leggi: controfirmava norme e decreti approvati
dall'esecutivo e dal legislativo. Il regno era e rimase un sistema
“misto”, una monarchia rappresentativa vincolata dall’articolo 5 dello
Statuto che riservava al re il comando delle forze armate (senza
chiarire chi dovesse davvero capitanarle in guerra) e il dominio sulla
politica estera (stipula dei trattati non comportanti oneri: una
finzione, giacché ogni patto o accordo ne genera sempre),
incluse
la dichiarazione e la proclamazione della guerra.
In
sintonia col giovane re, il governo, presieduto dal democratico
Giuseppe Zanardelli e con Giovanni Giolitti all’Interno, il 14 novembre
1901 fissò le “materie da sottoporsi al Consiglio dei Ministri”. Da
quel momento spettò all'esecutivo indicare chi avrebbe occupato cariche
apicali; ma l’esercizio del potere rimase incardinato sulla persona del
sovrano. Vittorio Emanuele III ebbe chiaro il quadro: era il primo
funzionario della Corona. Perciò prese casa lontano dal Quirinale,
ove andava come un impiegato all’ufficio. Vi svolgeva le
“pratiche” e se ne tornava agli studi e agli affetti
domestici.
Dedicava il giovedì e la domenica alla famiglia, la Regina Elena e i
figli (Jolanda, Mafalda, Umberto, Giovanna e Maria).
Bersaglio di numerosi attentati (molti progettati, alcuni giunti quasi
a segno: nel 1912 e, peggio, nel 1928 quando scampò per pochi minuti
alla strage di Milano, ove inaugurò la Fiera Campionaria: un crimine
dalla matrice tuttora oscura, costato oltre venti morti e sessanta
feriti gravi), il re affrontò in prima persona i momenti più
critici della vita pubblica, non per ambizione di potere personale ma,
ripetutamente, per debolezza del governo e inconcludenza del
parlamento. Tuttavia rimane bersaglio di imputazioni anziché oggetto di
valutazioni critiche e paga la “nolontà” di fare i conti con la storia
d'Italia.
La polemica politica spesso addebitò a
Vittorio Emanuele III “colpe” che non sono affatto sue. Tra le molte,
ricordiamo le più ricorrenti: l'“avvento del fascismo” e del
“regime” dopo l'assassinio di Matteotti (1924), che aprì la strada alla
“dittatura” e al “partito unico; le “leggi razziali” (1938); la stipula
dell’armistizio annunciato l’8 settembre 1943 e la “fuga di Pescara”.
In un polemico opuscolo del 1946, Luigi Salvatorelli (che però poi si
corresse) accusò Vittorio Emanuele III di tre
“colpi di
Stato”: l'intervento dell'Italia nella Grande Guerra nel maggio 1915;
l'incarico a Mussolini nell'ottobre 1922; e il 25 luglio
1943,
quando impose le dimissioni al duce del fascismo e lo
sostituì
col maresciallo Pietro Badoglio.
Senza pretese di
completezza, in vista di approfondimento critico e quale contributo al
dibattito si possono avanzare alcune sintetiche considerazioni sulle
principali riserve o “accuse” solitamente mossegli. Se l'ingresso
dell'Italia nella guerra europea rimane oggetto di valutazioni
contrastanti sul metodo e sul merito (2), è innegabile che essa spazzò
via gli imperi russo, turco-ottomano, austro-ungarico e germanico.
L'Italia rimase la monarchia più forte e autorevole del continente
europeo, con aggravio della sua responsabilità nella comunità
internazionale. Lo si constatò nella stipula dei tratatti di pace (il
cui centenario è imminente) e in seno alla Società delle
Nazioni.
Nell’ottobre 1922 arrivarono si
aggrovigliarono antichi e nuovi nodi della storia d’Italia: la
debolezza dello Stato dinnanzi alla tracotanza dei partiti,
l’impossibilità di formare un governo stabile per la legge
elettorale (la “maledetta proporzionale”, voluta da socialisti e dal
partito popolare di don Luigi Sturzo, bollato da Giolitti quale “prete
intrigante”), che frantumò la Camera dei deputati in quattordici gruppi
e gruppetti, la richiesta perentoria di ordine pubblico e di un
drastico taglio degli sperperi di denaro pubblico anche per rispetto
dell’enorme costo umano sopportato nella Grande Guerra. Tra il 1918 e
il 1922 si susseguirono sei governi inconcludenti. Anche Giolitti nel
giugno 1921 rassegnò le dimissiomi del suo quinto e ultimo ministero. A
metà ottobre del 1922 il re chiese ruvidamente al presidente
del
Consiglio, Luigi Facta, di convocare le Camere. Facta non lo fece.
Trattava sottobanco con tutti, a cominciare da Mussolini e d’Annunzio.
Altrettanto facevano altri maggiorenti. Per svuotare la militarmente
inconsistente “marcia su Roma” e riportare la crisi extraparlamentare
nei binari istituzionali, il Re varò il governo di coalizione nazionale
insediato il 31 ottobre. Presieduto da Benito Mussolini, questo
comprese fascisti, nazionalisti, liberali, demosociali ed
esponenti del partito popolare italiano, come il futuro presidente
della Repubblica, Giovanni Gronchi. Ministro dell'Industria, il conte
Teofilo Rossi di Montelera vi rappresentò i giolittiani. A nome dei
popolari Alcide De Gasperi approvò il nuovo governo, che ebbe 306 voti
a favore, 117 contrari alla Camera, 184 si e 19 no al Senato (ove i
fascisti erano solo due su circa quattrocento). E' dunque difficile
sostenere che sia stato il re a volere il fascismo al potere. Giolitti
osservò che il Parlamento non aveva assicurato un governo al paese e il
paese se l'era dato da sé.
Dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno
1924), per protesta contro Mussolini, tacciato quale mandante politico
del delitto (3), socialisti, repubblicani, popolari e ‘democratici’
seguaci di Giovanni Amendola disertarono l’Aula. Una delegazione delle
opposizioni si fece ricevere dal re. Vittorio Emanuele III fece capire
che non toccava a lui ma alle Camere risolvere la crisi. Era un sovrano
costituzionale, non un despota. Se nell'ottobre 1922 erano appena 37,
in quel momento, dopo le elezioni del 6 aprile, i deputati iscritti al
Partito nazionale fascista erano 227 su 535. L’ottantatreenne Giolitti
puntò a formare una nuova maggioranza in Aula, ma rimase quasi solo e
dichiarò il suo disprezzo nei confronti dei socialisti (irresponsabili,
a differenza dei comunisti che rimasero alla Camera), dei popolari
(inetti) e di certi “liberali”. I repubblicani contavano poco ed erano
comunque anti-sistema. Mussolini rimase al governo non per superiorità
propria ma per gli errori delle opposizioni, come argomentato da Renzo
De Felice, Roberto Vivarelli e altri. Queste additarono pertanto il re
quale nemico della democrazia. La monarchia doveva essere
abbattuta con il regime fascista. Simul stabunt, simul cadent...
Nel 1938 il governo Mussolini contava tredici anni di successi: il
risanamento della lira, il Concordato con la Santa Sede, il ripristino
della sicurezza, una notevole efficienza dei servizi, l'Istituto per la
Ricostruzione Industriale, il riordino della Banca d''Italia, l’impresa
di Etiopia, che i contemporanei vissero in modo diverso da
come
fu giudicata dopo la seconda guerra mondiale e la catastrofe di tutti
gli imperi coloniali. Mussolini e il Partito nazionale fascista
orchestrato da Achille Starace erano al culmine del consenso. Nondimeno
il re era più che mai “isolato”. La Camera dei deputati era formata da
candidati designati dal Gran Consiglio del Fascismo (sin dal 1928
elevato a organo dello Stato: una sorta di “terza Camera”) e votati in
blocco dagli elettori. La Camera era dunque prona al capo del governo.
Altrettanto valeva per molti senatori. Lo si vide proprio
nell’approvazione delle leggi “per la difesa della stirpe”. I patres in
carica erano circa 400. In aula andarono in 160; i voti
contrari
(segreti) furono dieci. La legge passò dunque col favore di un terzo
dei senatori, tra i quali si contavano tredici ebrei che, dopo
l'approvazione delle famigerate leggi, rimasero indisturbati al loro
posto, come ha documentato Aldo Pezzana nell'insuperato saggio Gli
uomini del Re (Bastogi, 2001)
Le “leggi razziali”,
dunque, non furono affatto volute dal Vittorio Emanuele III. Riluttante
ma senza alcuna alternativa costituzionale le firmò perché erano state
deliberate dalle Camere che, piaccia o meno, rappresentavano gli
italiani. Non era stato il re a mettere il Paese sulla china arrivata
sino a quel punto. Non si levò alcuna voce di netta opposizione né di
ferma condanna: non da parte di ‘liberali’, né dalla Chiesa cattolica.
Avrebbe dovuto abdicare? Se lo avesse fatto, la responsabilità sarebbe
gravata sul trentaquattrenne Umberto di Piemonte, il cui erede al trono
aveva appena un anno. Se a sua volta avesse abdicato per non
sottoscrivere le “leggi della vergogna”, il Paese sarebbe finito nel
caos, come volevano i fascisti repubblicani, ormai in
maggioranza
nel partito e nella milizia volontaria di sicurezza nazionale. Va
aggiunto che da marzo l'Italia confinava con la Germania, che aveva
annesso l'Austria, previo plebiscito entusiastico dei suoi
abitanti.
Nel 1904 Vittorio
Emanuele III presenziò alla consacrazione della Sinagoga di Roma. Nel
1939-1942 uno stuolo di ebrei andava a estivare negli alberghi delle
valli frequentate dal sovrano e dai Principi perché li si sentiva al
sicuro. Del resto un Savoia era l’ultimo a poter credere che esistesse
una “razza italiana” dal momento che la Casa aveva alle spalle secoli
di matrimoni tra francesi, spagnoli, austriaci, sassoni, sino a Elena
di Montenegro e a Maria José del Belgio... Vittorio Emanuele
III
comprese l'obiettivo politico-istituzionale delle leggi razziali volute
da Mussolini: isolarlo ulteriormente a vantaggio delle correnti
repubblicane, decise a indebolire l'unica monarchia consistente del
continente, mentre in Spagna divampava la guerra civile e in Europa
dilagavano regimi nazionalsocialisti e comunisti di massa.
L'antisemitismo era la testa d'ariete per abbattere quanto rimaneva
della tradizione monarchica e liberale, due volti di una stessa civiltà
politica.
Il
25 luglio 1943, dopo il voto del Gran Consiglio del fascismo (non era
stato il re a farne il tutore del Parlamento e il depositario
di
poteri straordinari) e al termine del drammatico colloquio a Villa
Savoia, Vittorio Emanuele III impose a Mussolini le dimissioni da capo
del governo. Con somme cautele e ritardi comprensibili date le
circostanze militari del momento, il suo successore, Pietro Badoglio,
ottenne che gli anglo-americani concedessero all’Italia di arrendersi
senza condizioni: non armistizio, ma “resa” come imposto da Stalin agli
anglo-americani nella Conferenza di Casablanca (14-26 gennaio
1943).
A quel punto occorreva salvare la
continuità dello Stato, come è stato riconosciuto non solo da storici
quali Giovanni Artieri, Francesco Perfetti e da Antonio
Spinoza
(Vittorio Emanuele III. L'astuzia di un re, Mondadori, 1990)
ma
anche dal presidente della repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.
Per
farlo vi era un unico modo: evitare la cattura della Famiglia Reale
(incluso il principe ereditario, Umberto) e del governo da parte dei
germanici, senza mettersi platealmente in braccio ai vincitori, che
proposero al re di accoglierlo su una loro nave (vale a dire sul loro
“territorio”). Perciò il governo decise di lasciare Roma
(militarmente indifendibile e poi “città aperta” anche in ossequio a
Pio XII, sovrano dello Stato del Vaticano) per la Puglia meridionale
(esattamente Brindisi), ove non vi erano né tedeschi né
anglo-americani. Anche Sergio Romano, mai prodigo di riconoscimenti ai
Savoia, conclude che quel trasferimento fu possibile senza le
insinuate ma mai documentate trattative sottobanco tra Badoglio e
Kesselring.
Il Re, il Maresciallo Badoglio, il
ministro degli Esteri, Raffaele Guariglia, il Comando Supremo, la
diplomazia, ecc. ecc. avrebbero potuto fare di più e di meglio nei
quarantacinque giorni tra il 25 luglio e l’annuncio dell’armistizio (8
settembre 1943)? E' possibile, ma compito dello storico è documentare e
spiegare gli eventi, non immaginare percorsi diversi dal corso dei
fatti.
Nelle fasi critiche Vittorio
Emanuele III fece più di quanto gli fosse chiesto dallo
Statuto.
Non agì però mai per sé ma per quanto via via ritenne interesse
generale dell’Italia: il male minore se non il vantaggio maggiore. Come
si era impegnato a fare sin dal 12 aprile 1944, il 5 giugno trasferì
tutti i poteri della Corona, “nessuno escluso”, al figlio, Umberto,
principe di Piemonte, quale Luogotenente del regno, ma rimase re sino
al 9 maggio 1946, quando abdicò e partì per Alessandria d’Egitto ove
morì il 28 dicembre 1947. Li fu sepolto: “esule” non dall'Italia ma
dalla memoria storica, per l'inclinazione dei connazionali ad
attribuirsi collettivamente il merito dei successi e ad addebitare le
sconfitte a “una persona, una persona sola”.
Settantadue anni dopo la vittoria della Repubblica al referendum sulla
forma dello Stato (22-3 giugno 1946), la traslazione in Italia delle
salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena (morta a
Montpellier il 28 novembre 1952 e là sepolta) potrebbe propiziare le
risposte ai molti interrogativi ancora aperti sull'ultimo mezzo secolo
della monarchia in Italia: un confronto storiografico senza preconcetti
(4).
Aldo A. Mola
NOTE
1 F.Le Moal, Victor-Emmanuel
III. Un roi face au
fascisme, Pais, Perrin, 2015. L'opera
è stata tradotta da Pasquale Faccia per le
edizoni LEG (Vittorio Emanuele
III, Gorizia, 2016). Frutto di lunghe
ricerche negli archivi francesi e
nell'Archivio Segreto Vaticano e dello studo di memorialistica, saggi
altrui e
dei Documenti diplomatici italiani
(notoriamente
lacunosi), l'opera presenta qui e là di preconcetti esiti talora
curiosi. Vi si
legge, per es., che nel 1945 la guerra terminò “nel furore
dell'Apocalisse (…)
Mussolini viene fucilato durante la fuga, prima di essere impiccato in
piazzale
Loreto a Milao” (pag. 409).(2)
2 AA.VV, “Maggio radioso” o
colpo di Stato?, Cuneo, 2016.
3 E. Tiozzo, Matteotti senza
aureola, II, Il delitto, Foggia,
Bastogi, 2016.
4 A.
A. Mola, Vittorio Emanuele III, in Il
Parlamento Italiano, vol. 12, Dal consenso al
crollo,1939-1945, tomo
II, pp.291-309, Milano, Nuova Cei, 1990
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