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LUGLIO 1943
FU COLPO DI STATO?
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del
Piemonte e della Liguria” di domenica 11 luglio 2021, pagg. 1 e 11.
“Lento pede”
verso la verità storiografica
Ogni anno un piccolo passo avanti verso la verità sul 25 luglio 1943.
Quel giorno, a conclusione di un colloquio di venti minuti iniziato
alle 17 a Villa Savoia, Vittorio Emanuele III revocò Benito Mussolini
da capo del governo e lo sostituì con il Maresciallo d'Italia Pietro
Badoglio. Secondo Luigi Salvatorelli e altri studiosi e polemisti fu il
terzo “colpo di Stato” messo a segno dal sovrano in un trentennio, dopo
la dichiarazione di guerra all'impero d'Austria-Ungheria il 24 maggio
1915 e l'insediamento del governo Mussolini il 31 ottobre 1922. In un
saggio del 1953 Elio Lodolini denunciò La illegittimità del governo
Badoglio (ed. Gastaldi). Troppi però trascurano che
l'ingresso nella Grande Guerra fu previamente approvato dal Parlamento
e che il 16 novembre 1922 il governo Mussolini alla Camera ebbe il voto
favorevole di tutti i partiti costituzionali, i cui rappresentanti del
resto ne facevano parte, compresi i popolari di don Sturzo, i
demosociali di Colonna di Cesarò e i demoliberali capitanati da
Giolitti, Orlando, Salandra, e ottenne il “si” quasi unanime del Senato.
Re costituzionale, Vittorio Emanuele III operò con l'avallo delle
Camere sulla base dei poteri di “capo supremo dello Stato” e comandante
delle forze armate, come stabilito dall'articolo 5 dello Statuto
promulgato da Carlo Alberto il 4 marzo 1848. Il 25 luglio fu
un'eccezione e in quali termini? La revoca di Mussolini da capo del
governo può essere imputata al re quale arbitrio incostituzionale? Il
sovrano abusò del regio potere sostituendo il duce con il duca di Addis
Abeba?
In Come muore un
regime. Il fascismo verso il 25 luglio (ed. il Mulino)
Paolo Cacace, studioso di istituzioni e politica estera e autore
dell'intrigante saggio Quando
Mussolini rischiò di morire (ed. Fazi), mira a mettere
ordine nelle “cordate” che lavorarono al “cambio” al vertice del
governo di un'Italia ormai militarmente sconfitta, con la Sicilia già
invasa dagli anglo-americani e dopo il bombardamento dell'aviazione
americana su Roma il 19 luglio, proprio mentre Mussolini incontrava per
l'ennesima volta Hitler, precisamente nella villa dell'industriale e
finanziere Achille Gaggia, non lontano da Feltre, raggiunta dai due in
aereo sino a Treviso, in treno fino a Feltre e infine in auto.
Pressato dai vertici delle forze armate, il duce si proponeva di
chiedere che, con i buoni uffici del Giappone (in guerra contro gli USA
e i suoi alleati occidentali ma non contro la Russia), la Germania
imboccasse la via di un armistizio con Stalin per rovesciare la sua
potenza di fuoco verso il Mediterraneo. Diversamente l'Italia, ormai
soccombente e con armate disperse all'estero, sarebbe stata costretta a
una pace separata. Hitler, invece, ancora sicuro di sconfiggere i
sovietici (che proprio in quei giorni lanciarono l'offensiva vincente)
e famelicamente bisognoso di sfruttare le risorse delle terre
soggiogate, per due ore deplorò la resa degli italiani in Sicilia, a
volte quasi senza combattere, e prospettò la completa subordinazione
delle loro infide a generali tedeschi. L'incontro si risolse in un
monologo di Hitler, che ventilò anche il possesso di armi segrete
invincibili: le future V1 e V2, mentre però gli USA lavoravano
all'atomica.
Rientrato pilotando personalmente l’aereo nella Roma sconvolta dai
bombardieri statunitensi (3.000 morti, 10.000 feriti, rovine immense
nel quartiere San Lorenzo), Mussolini dichiarò al generale Vittorio
Ambrosio, capo di stato maggiore generale, di voler a scrivere a Hitler
quanto non gli aveva detto nell’incontro. Troppo tardi...
Nel paragrafo “bombe nella villa degli arcani”, Cacace torna
a indagare sull'attentato ordito dal maggiore Cesare Del Vecchio e dal
capitano Antonio Giuriolo (ufficiali degli alpini reduci dalla campagna
di Russia) per uccidere il fuehrer e il duce al loro arrivo a Villa
Gaggia; attentato sfumato perché, con i commilitoni pronti ad agire,
essi vennero trasferiti altrove pochi giorni prima del convegno. In
pagine dense di allusioni e di “forse”, l'autore ripercorre il reticolo
di vaghe connivenze tra militari, esponenti del partito d'azione,
socialisti, repubblicani, come Cino Macrelli, accenna a un colloquio
tra l'insigne latinista Concetto Marchesi, comunista, e il generale
Raffaele Cadorna e conclude che secondo l'azionista Ugo La Malfa fu il
Vaticano a imporre l'“alt” all'esecuzione del “colpaccio”. Aggiunge,
quasi per inciso, che l'intrigo era forse noto a Giuseppe Bottai, il
gerarca (stranamente antisemita) che legò il nome alla Carta della
Scuola.
Quanti “figli
della Vedova” nel Gran Consiglio...
Generoso dispensatore dell'etichetta di massone a politici, militari e
grandi affaristi (Vittorio Emanuele Orlando, a sua detta addirittura
affiliato alla loggia “Propaganda massonica” del Grande Oriente
d'Italia; Pietro Badoglio, classificato come “massone coperto”; Armando
Diaz, “in odore di loggia”; Giuseppe Volpi e Vittorio Cini, entrambi
intrinseci di Angelo Gaggia, e un lungo elenco di generali la cui
iniziazione in realtà non è affatto documentata), Cacace non scrive
che, a differenza dei predetti, proprio Bottai, “dottore in
giurisprudenza, residente a Roma in via Ancona 65”, il 20 aprile 1920
era stato iniziato “apprendista massone” nell'“officina” romana “La
Forgia”, all'obbedienza della Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI) e
fu radiato per morosità il 19 maggio 1923, dopo la dichiarazione di
incompatibilità tra fasci e grembiulini, deliberata dal Gran Consiglio
del Fascismo su impulso dei nazionalisti e con la consulenza di un ex
sacerdote che per validi motivi Mussolini evitava di incrociare e si
guardava dal nominare.
Poiché la storiografia si fonda sul vaglio di documenti anziché su
frammenti di memorie spesso più difensive che oggettive, né si basa su
elucubrazioni e fantasiose illazioni, Cacace separa scrupolosamente il
grano dei “fatti accertati” dal loglio di quelli meramente “supposti”,
con l'intento di rispondere alla domanda fondamentale sul 25 luglio
1943: chi davvero preparò e quando decise la sostituzione di Mussolini
con Badoglio?
Al netto di progetti di minor portata e di propositi che si esaurirono
o non ottennero alcun risultato pratico (rientrano in tale ambito i
contatti instaurati tra la Principessa di Piemonte, Maria José,
verosimilmente non all'insaputa del principe ereditario, Umberto, il
sostituto segretario di Stato vaticano monsignor Giovanni Battista
Montini e taluni notabili dell'antifascismo incluso Concetto Marchesi),
fermo restando che i partiti (incluso il comunista) erano ancora del
tutto privi di organizzazione adeguata e di effettiva incidenza sul
corso degli eventi, le “cordate” principali in azione per il riassetto
o il “cambio” al vertice del governo sono tre. Anzitutto i componenti
del Gran consiglio del fascismo, la massoneria e i militari. Benché si
possa parlare di “filiere” separate e preso atto che ciascuna di esse
procedette nel massimo riserbo, ognuna ignara delle altre se non per
cenni confidenzialmente scambiati tra taluni loro componenti, senza
però che l'una conoscesse protagonisti e progetti dell'altra (farsi
scoprire comportava finire agli arresti o peggio...), in una visione
sintetica della loro trama si evince che tutte e tre facevano comunque
conto sull'intervento risolutore del Re quale referente ultimo della
loro iniziativa.
Procedendo per sommi capi e senza quindi privare il lettore del piacere
di addentrarsi nei meandri esplorati da Cacace, la “cordata” più
visibile e ripetutamente indagata fu quella allestita da Dino Grandi,
conte di Mordano, proto-fascista, a lungo ambasciatore a Londra,
presidente della Camera dei deputati, in convergenza con Giuseppe
Bottai e con Luigi Federzoni, nazionalista, dal 1929 al 1939 presidente
del Senato e massonofobo. Da quella prima intesa nacque la richiesta a
Mussolini di convocazione del Gran Consiglio, dal 1928 elevato a
“organo della rivoluzione fascista”, che non si radunava dal 7 dicembre
1939, cioè da prima dell'ingresso dell'Italia in una guerra che da
“parallela” divenne via via “subalterna” rispetto a quella della
Germania. Anche il filotedesco Roberto Farinacci, “ras di Cremona”,
razzista oltranzista, e il chiassoso segretario del partito nazionale
fascista, Carlo Scorza, si unirono nella richiesta della convocazione,
suggerita da Vittorio Emanuele III a Grandi come “un surrogato del
Parlamento”. Le Camere non venivano convocate neppure dinnanzi alla
catastrofe militare imminente, a differenza di quanto era avvenuto nel
novembre 1917, quando istituzioni e “politica” risposero al disastro di
Caporetto con un governo nuovo e l'intervento solenne degli ex
presidenti del Consiglio (Salandra, Boselli e Giolitti) in una seduta
durante la quale Filippo Turati dichiarò che anche per i socialisti la
Patria era sul Piave.
A differenza di quanto spesso ripetuto, l'ordine del giorno illustrato
da Grandi alle 17 del 24 luglio dinnanzi al Gran Consiglio radunato
nella sala del Pappagallo a Palazzo Venezia, in una Roma angosciata e
deserta, non prospettò affatto la fine del fascismo, né (a differenza
di quanto asserito da Emilio Gentile) l'“eutanasia del regime”, ma
semplicemente l’assunzione del comando delle forze armate da parte del
sovrano, la nomina di titolari dei ministeri militari (fagocitati da
Mussolini, capo del governo e ministro dell'Interno e degli Esteri),
l'appello alla resistenza militare in costanza delle istituzioni del
regime, a cominciare dal Gran Consiglio stesso, e la configurazione del
ruolo politico del duce, la cui sostituzione né Grandi né quanti
approvarono il suo ordine del giorno (compreso Galeazzo Ciano, genero
di Mussolini) esplicitamente proposero. Non per caso, dopo poche ore di
sonno a Villa Torlonia, la mattina del 25 il duce tornò a Palazzo
Venezia nella convinzione di avere ancora in pugno il governo del
Paese. In quella convinzione sollecitò e ottenne udienza dal Re alle 17
a Villa Savoia, anticipando di poche ore quella ordinaria, prevista per
l'indomani.
Per motivi di cui poco oltre diciamo, non è il caso di insistere
sull'antica affiliazione massonica di parecchi componenti del Gran
Consiglio e meno ancora di insinuare il massonismo di chi sino a prova
contraria non fu mai iniziato. È il caso dei due quadrumviri
superstiti, Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon ed Emilio De Bono.
Che Giacomo Acerbo, Giuseppe Bottai, Alfredo De Marsico (dal 1911),
Roberto Farinacci, Giovanni Marinelli ed Edmondo Rossoni, in tempi
remoti e per diversa durata, fossero stati in logge del Grande Oriente
d'Italia (GOI) o della Gran Loggia d'Italia (GLI) non consente di
dedurne che fossero in combutta in quanto massoni. Solo nel corso della
seduta alcuni “fratelli” aggiunsero la loro alla firma dei proponenti
originari. Indurre la consonanza di vedute tra gerarchi solo perché
“figli della Vedova” (ovvero massoni) comporterebbe induzioni e
deduzioni su fatti mai acclarati: anzitutto erano a conoscenza gli uni
degli altri dell'antica militanza in Comunità contrapposte in contese
poco fraterne e duramente competitive come quelle guidate da Domizio
Torrigiani e da Raoul Palermi? Avevano, e quale, un abbozzò di progetto
unitario che li accomunasse al quartetto Grandi-Federzoni-Bottai-Ciano,
massonofagi o massoni pentiti? A profittare del loro pronunciamento,
come Grandi stesso apprese con amarezza, sarebbe stato il successore in
pectore di Mussolini, il maresciallo Badoglio che taluni, riecheggiati
da Cacace, classificano “massone coperto” o “non dichiarato”, ma senza
produrre alcun documento probante.
… e con le
Stellette
Del pari, mentre è assodata l'iniziazione del maresciallo Ugo Cavallero
(sia al GOI, sia alla GLI), notoriamente antagonista di Badoglio, il
quale lasciò sulla scrivania in bella evidenza il “memoriale” che gli
costò la vita (venne “suicidato” da Kesselring perché rifiutò di
assumere il comando di un esercito italiano succubo dei tedeschi), del
generale Giacomo Carboni e di altri minori protagonisti del “colpo di
Stato”, come il generale Soleti e (molto importante) il Maresciallo
Messe, caduto prigioniero degli inglesi e futuro capo di stato maggiore
generale, manca qualunque prova di appartenenza massonica dei capi
della “cordata” militare. Questa risultò la principale e vincente, in
convergenza con il duca Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa di
Vittorio Emanuele III. Essa fu incardinata sul capo di stato maggiore
generale Vittorio Ambrosio e i suoi fidatissimi collaboratori, quale il
giovane e fattivo Giuseppe Castellano, nessuno dei quali risulta
massone, come non lo era il Maresciallo Enrico Caviglia benché pare che
il Re non l'abbia preferito a Badoglio proprio perché non voleva si
dicesse che la sostituzione di Mussolini riportava al potere la
massoneria.
Meriterebbe un'ampia evocazione il ruolo svolto a ridosso del 24-25
luglio da Domenico Maiocco, capofila della Massoneria Italiana
Unificata (biografato dal colonnello Antonino Zarcone), solerte tramite
fra massoni, gerarchi di sicura sponda monarchica (come De Vecchi e
Alfieri) e Ivanoe Bonomi, che guidava le forze antifasciste
“aventiniane” con Marcelo Soleri (mai aventiniano né massone, a
differenza di quanto afferma Cacace). Del pari va ricordato che il
padre di Federico Comandini, nella cui abitazione venne fondato il
Partito d'azione, era Ubaldo, repubblicano intransigente e massone
nella loggia di Cesena. Insomma, a lungo costretta al sonno e con
labili legami con le Comunità d'Oltrape, d'oltre Manica e oltre
Atlantico, la massoneria in Italia, appena affiorante, non aveva
affatto un progetto univoco.
Importa invece arrivare alla conclusione, cui conduce il materiale
innovativo proposto da Paolo Cacace. Il vero regista del “cambio” fu
l'impenetrabile Vittorio Emanuele III, unico vero interlocutore degli
Alleati, in specie degli inglesi, consci che il sovrano era il garante
della continuità dello Stato d'Italia, la cui legalità internazionale e
interna poggiava su forze armate e corpo diplomatico.
Il disegno del Re era chiaro: ottenere che l'Italia potesse arrendersi
e ottenere un “armistizio” (cioè la “tregua” delle armi) come il 9
settembre i giornali denominarono la “resa senza condizioni”
(surrender), subita dopo le intricate trattative condotte da Giuseppe
Castellano e firmate a Cassibile. Nello strumento della resa gli
anglo-americani ordinarono all'Italia la “defascistizzazione”, altra
cosa dalla “epurazione”, inventata per arruffate ragioni etiche da chi
voleva scaricare sulla sola Corona il passivo della guerra e far
dimenticare di aver votato a favore di Mussolini o di essere longa
manus di Stalin.
Non fu “colpo
di Stato”
Il 25 luglio fu dunque un “colpo di Stato”? La risposta è no. Vittorio
Emanuele III esercitò il potere secondo l'articolo 65 dello Statuto:
“Il Re nomina e revoca i suoi ministri”. Come a suo tempo osservò Luigi
Einaudi, monarchico e presidente della Repubblica, il Re mostrò che “la
prerogativa sovrana può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e
risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se
tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una
situazione che gli eletti del popolo da sé non sono capaci di
affrontare o per stabilire l'osservanza della legge fondamentale,
violata nella sostanza, anche se osservata nell'apparenza”. L'Italia
non era una “diarchia”, ma una “monarchia costituzionale”. Il Re fece
quel che la Camera dei fasci e delle corporazioni, prona al duce, non
seppe intraprendere. Venne implicitamente sollecitato dai 63 senatori
che il 22 luglio chiesero la convocazione della Camera Alta. Il Gran
Consiglio operò solo da “surrogato”. Cinque suoi componenti, condannati
per alto tradimento, pagarono con la vita al Poligono di tiro di Verona
per squallida vendetta di chi cercava tardivi meriti agli occhi di
Hitler... Va loro tributato rispetto per quella iniqua fine, che non è
l'ultimo dei motivi del sanguinoso epilogo della Repubblica sociale
italiana. Alle 17 del 25 luglio 1943 Vittorio Emanuele III si era fatto
garante della sicurezza personale del duce, che infatti non venne
“arrestato” ma “fermato” e per scritto si dichiarò pronto a collaborare
con Badoglio. Poi la storia ebbe altro corso...
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869 - Alessandria d'Egitto,
28 dicembre 1947), Re d'Italia (20 luglio 1900 - 9 maggio 1946). La sua
Salma riposa nel silenzio della Basilica di Vicoforte con quella della
Consorte, la Regina Elena.
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