Libertà di
associazione
Arriva in libreria un'opera
fondamentale. Alessandro Liviero vi documenta per
la prima volta la lunga genesi dell'Istituto
nazionale per la Guardia d'Onore alle Reali Tombe
del Pantheon. Come noto, la sua “necessità” fu
dettata dalla morte inaspettata del primo Re
d'Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia, dalla
sua tumulazione al Pantheon e dal culto che
immediatamente ne scaturì e rapidamente si
affermò, sino al grandioso pellegrinaggio del
1884. Ma le sue premesse sono molto più ampie e
profonde. Esse vanno cercate nelle riforme varate
nel 1846-1848 da Carlo Alberto di Savoia, Re di
Sardegna, e dall'articolo 32 dello Statuto del 4
marzo 1848 che riconobbe «il diritto di radunarsi
pacificamente senz'armi, uniformandosi alle leggi
che possono regolarne l'esercizio nell'interesse
della cosa pubblica». Da lì sorse
l'associazionismo, compreso quello dei reduci
dalle guerre per l'Unità d'Italia.
Tra le sue premesse vi fu il Regio
editto che il 27 novembre 1847 decretò
l'elettività dei consigli comunali, provinciali e
divisionali. Migliaia e migliaia di amministratori
pubblici non furono più nominati “dall'alto” ma
liberamente scelti dagli elettori. La libertà di
associazione crebbe sul solido tronco delle
corporazioni di mestiere. Lo avevano chiaro i
liberali come Camillo Cavour e Roberto d'Azeglio
che pronunciarono discorsi ai banchetti dei
commercianti, al pranzo dei garzoni falegnami e al
convito nazionale dei mastri e garzoni carrozzai.
Tranclassisti.
Il 9 marzo 1848 Onorato Vigliani
indicò i compiti del governo formato da Carlo
Alberto: amnistia politica, legge elettorale
“assai larga” e legge sulla stampa, “palladio
della libertà”. All’emancipazione dei valdesi,
decretata il 17 febbraio, seguì quella degli
ebrei. Nella fioritura di testate giornalistiche,
il 16 giugno 1848 due medici, Alessandro Borella
(Castellamonte, 1813-Torino, 1858) e Giovan
Battista Bottero (Nizza Marittima, 1822-Torino,
1897) e uno scrittore autodidatta, Felice Govean
(Racconigi, 1819-Alpignano, 1898), fondarono il
pugnace quotidiano destinato sin dal nome a
esprimere il consenso per il nuovo corso politico
non solo del Vecchio Piemonte ma dell'Italia
intera: “La Gazzetta del Popolo”.
Giornali, logge e attestati al merito
Dieci anni dopo quegli stessi uomini
svolsero un ruolo eminente sia a sostegno della
seconda guerra contro l'Austria (questa volta
franco-sabauda), sia nell'organizzazione della
memoria. Al conte Livio Zambeccari che, veterano
delle battaglie liberali, gli proponeva una
“Legione sacra”, nella primavera del 1859 Camillo
Cavour rispose seccamente: «Non occorre». Gli
preferiva Giuseppe Garibaldi in divisa di generale
dell'Armata sarda, comandante dei Cacciatori delle
Alpi accasermati a Cuneo e a Savigliano e agli
ordini di ufficiali sperimentati come Giacomo
Medici ed Enrico Cosenz, ex allievo della
Nunziatella di Napoli. Il 6 ottobre, però, a
Giuseppe La Farina, demiurgo della Società
Nazionale, scrisse: «Avrò molto piacere a
ragionare con lei del passato, del presente e del
futuro dell'Italia nostra, ed a ricominciare
l'opera interrotta, ma non abbandonata.» Due
giorni dopo sette massoni fondarono a Torino la
loggia “Ausonia”, germe della riorganizzazione in
Italia della massoneria, fiorentissima nella
Francia di Napoleone III.
Mentre Govean operava sul fronte che
andava dalle logge piemontesi a quelle attive in
Egitto, tramite il quotidiano torinese Bottero
promosse l'associazionismo dei reduci e veterani
delle patrie battaglie. L'esempio venne
d’Oltralpe, con il conferimento delle medaglie
commemorative della partecipazione alla guerra
della primavera del 1859. Iniziò il lungo cammino
coronato dall'adunata del 26 luglio 1863 al Teatro
“Vittorio Emanuele” di Torino e l'istituzione del
Comitato generale dei veterani. Nell'impossibilità
di ottenere la coniazione di medaglie, troppo
onerose per il magro bilancio del Regno, esso
propose almeno un Attestato nazionale. La Corona
non rimase spettatrice. Assecondò.
A parte personalismi e vanità, che
connotano tutte le associazioni, l'organizzazione
fu condizionata da eventi che sormontarono la
volontà dei promotori. In primo luogo va ricordato
il dualismo tra l'Armata Sarda e l'“Esercito
meridionale”, fonte di durissimi scontri, anche
alla Camera, tra Cavour e Garibaldi. L'istituzione
dell'Esercito italiano (inizialmente senza
l'aggettivo Regio, come insegna la “Storia
dell'Esercito italiano” di Oreste Bovio) chiuse la
disputa ma non sopì umori a lungo serpeggianti. In
secondo luogo nel 1861 l'Italia non fu affatto
unificata. Come dichiarato da Cavour in Parlamento
nel marzo-aprile 1861, l'Italia agognava Roma. Ma
come arrivarci? Nessuno intravvedeva una via
piana. Nel luglio-settembre 1862 ci provò
Garibaldi mettendo a rischio la posizione
internazionale dell'Italia con l'azzardata impresa
“Roma o morte”, finita malissimo. Inoltre, in
forza delle convenzioni del settembre 1864, la
capitale fu trasferita da Torino a Firenze: una
decisione che suscitò proteste soffocate con
impiego sconsiderato di militari in piazza San
Carlo, a Torino, e tragico bilancio di morti e
feriti. «I fratelli hanno ucciso i fratelli»,
scandì alla Camera il massone Riccardo Sineo,
democratico, lealista, vicinissimo a garibaldini
da un canto e a monarchici dall'altro. Bisognava
ricucire la ferita.
Da Soperga a Roma
Adunate e pellegrinaggi nei siti
memoriali, anzitutto a “Soperga”, come il colle
sormontato dalla basilica compare nelle cronache
dell'epoca, giorno dopo giorno cementarono il
Comizio generale dei volontari istituito in Torino
e la diffusione dei sotto-comitati, pazientemente
rintracciati da Liviero con lo spoglio di giornali
locali, sussidiario indispensabile in carenza di
fondi archivistici in massima parte distrutti o
perduti.
Dopo la guerra
italo/prussiano-austriaca del 1866, ancora una
volta Roma s’incuneò tra reduci e veterani.
Mentana divise i garibaldini dai mazziniani,
evocati dal “duce dei Mille” con parole sprezzanti
nelle Memorie. La separazione tra Garibaldi le
“cose mazzinesche” fu definitiva. Lo ebbe chiaro
Urbano Rattazzi. Ma non lo fu altrettanto in
ambienti più codini che monarchici, sempre molti
passi in ritardo rispetto a Vittorio Emanuele II.
Era fatale che nel 1868 sorgesse l'associazione
dei Volontari di Garibaldi, animati dallo stesso
spirito che dette vita alle molte iniziative volte
a consolidare l'affezione tra Esercito e Paese,
come il torinese Istituto per le figlie dei
militari morti (30 giugno 1869).
Finalmente, nel groviglio della
guerra franco-prussiana del 1870, sconfitto
Napoleone III a Sedan, previ febbrili ma vani
abboccamenti con Pio IX, il governo Lanza-Sella
(in quelle circostanze più Sella che Lanza, come
documenta Aldo G. Ricci) ordinò al IV corpo
dell'Esercito di irrompere in Roma. Il Venti
settembre ebbero ragione tutti: il Re, deciso a
unire la Città Eterna all'Italia in risposta al
coro unanime dei patrioti non faziosi; e il Papa
che (non a torto) temeva la scristianizzazione
della Città del Vicario di Cristo. Forse uno solo
sbagliò a fraintendere l'ordine del papa-re di
cedere solo alla violenza: il generale Hermann
Kanzler.
Era scontato che il Comitato
nazionale di Torino finisse per reincarnarsi in un
Istituto sedente in Roma. Con inesauribile
pazienza Liviero percorre tutti i difficili
tornanti del “cambio”, che maturò nel 1874-1875. A
Torino il Comitato aveva continuato a celebrare i
propri rituali. I suoi associati più assidui si
ritrovavano a Superga per rendere omaggio al
monumento funebre di Carlo Alberto, ultimo re di
Sardegna e profeta della guerra nazionale. Dopo il
rito, i Veterani si raccoglievano dinnanzi a “una
costoletta sopra il tondo e un mezzo di barbera”,
senza discorsi d'occasione. Ognuno aveva i suoi
ricordi. Non sentivano bisogno di omelie
ripetitive. Del resto avevano la solidarietà
persino dell'albese don Costantino Dalmasso,
presidente del sotto-comitato dei veterani e della
società operaia. Alba era la città di Michele
Coppino, il più memorabile ministro della pubblica
istruzione della storia d'Italia, massone.
Quella era l'Italia del Comizio
generale dei veterani il cui sotto-comitato
romano, costituito il fatidico 21 aprile 1876,
natale di Roma, fu solennemente ricevuto dal
principe ereditario Umberto, dalla consorte
Margherita di Savoia e dal re, che li accolse
parlando in piemontese. Il presidente del Comizio,
Pietro Galateri di Genola, un rupestre militare
mandato a domare il brigantaggio all'indomani
dell'annessione del Mezzogiorno, alla guida del
Comitato era affiancato da Giuseppe Garibaldi e da
Raffaele Cadorna, vicepresidenti onorari.
Seguivano come solerti componenti del “direttivo”
altri patrioti di specchiata fama. Tra questi
merita memoria il barone Carlo Raffaello Sobrero
(Cavallermaggiore, 24 ottobre 1791 - Torino, 30
gennaio 1878), professore di matematica, cresciuto
alla Scuola politecnica di Parigi, avviato alla
carriera militare non da propositi bellicosi ma da
sentimenti patriottici e risorgimentali. Alla
morte, il 26 maggio 1888, suo fratello Ascanio
poteva compiacersi della nipote, Rosa
(familiarmente detta Gina), moglie del
quarantaseienne Giovanni Giolitti, deputato dal
1882 e ormai guida della Sinistra Subalpina.
La grande svolta del cammino
ripercorso da Alessandro Liviero avvenne nel 1875,
all'indomani della forte avanzata della Sinistra
storica nelle elezioni del 1874, frutto della
ormai preminente opzione governativa degli antichi
garibaldini e del Terzo Partito di Antonio Mordini
e Angelo Bargoni. Esponenti illustri della
Sinistra, quali Coppino e Agostino Depretis, erano
già stati titolari di ministeri chiave in governi
considerati di Destra, come quello presieduto da
Bettino Ricasoli nel 1866. Motus in fine velocior,
senza neppure bisogno di una pre-verifica
elettorale, il 18 marzo 1876 il ministero di Marco
Minghetti rassegnò le dimissioni proprio quando
stava celebrando l'agognato pareggio del bilancio
di esercizio (altra cosa dalla riduzione del
debito pubblico, ma sua premessa). Gli subentrò il
governo presieduto da Depretis, con Nicotera
all'Interno, Luigi Amedeo Melegari agli Esteri,
Pasquale Stanislao Mancini alla Giustizia, Coppino
all'Istruzione, Giuseppe Zanardelli ai Lavori
Pubblici e due uomini del Re ai ministeri
militari: Luigi Mezzacapo, ex allievo della
Nunziatella, alla Guerra, e l'ingegnere Benedetto
Brin alla Marina. Quel triennio allentò il
dualismo tra Torino e Roma, tra i seguaci di
Pietro Galateri di Genola, morto improvvisamente,
e gli antichi garibaldini (Fabrizi, Avezzana...).
Quando Vittorio Emanuele II ricevette Garibaldi al
Quirinale in presenza dell'aiutante di Campo,
Giacomo Medici marchese del Vascello, ogni
dissenso fu consegnato al passato remoto. Re
Vittorio abbracciò l'eroe che gli illustrava il
progetto per l'industrializzazione e la bonifica
della Città Eterna: gli argini del Tevere, i
quartieri nuovi, il porto commerciale a Ostia, una
visione che gli arrivava dalla conoscenza diretta
di Londra, ove dieci anni prima era stato accolto
da mezzo milione di britannici affascinati dal suo
mito di guerrigliero, corsaro, generale del Re,
capace di portare in linea anche i più irrequieti
“democratici”, all'insegna dell'“ut unum sint”:
motto dei patrioti, come già della Compagnia di
Gesù. Uomini di fede.
Lo comprese bene Salvatore Pes di
Villamarina che si schierò a fianco della svolta
politica segnata dal governo della Sinistra
storica. Quasi a suggello della sua lunga operosa
vita per lo Stato sabaudo, egli morì il 15 maggio
1877. Poco prima, sotto l'incalzare della Giovane
Sinistra di De Sanctis, Depretis rassegnò la
dimissioni e fu sostituito da Benedetto Cairoli,
simbolo del patriottismo. La sua famiglia
all'Italia aveva donato tanti eroi, sino a
Giovanni, ferito a Mentana, catturato dai
pontifici e morto in prigionia. Il governo Cairoli
ebbe la triste sorte di misurarsi con la morte di
Re Vittorio che il 9 gennaio 1878 piombò
improvvisa sulla Giovane Italia e impose a tutti
di fare subito i conti con la storia e di
schierarsi senza esitazioni a fianco della
Monarchia, unica garante della stabilità
dell'Italia, dei riconoscimenti acquisiti
nell'ambito della Comunità internazionale e delle
prove alle quali l'Italia era chiamata.
Da dieci anni la Compagnia di
Navigazione Rubattino aveva acquistato la baia di
Assab sul Mar Rosso, tappa per le navi in rotta
dall'Italia all'Indonesia, ove Nino Bixio cercava
caucciù per il garibaldino Giovanni Battista
Pirelli, e oltre. Il Regno compartecipava ai
vantaggi propiziati dal Canale ideato da Luigi
Negrelli e, per così dire, “musicato” da Giuseppe
Verdi con l'Aida. Era l'ultima delle grandi
potenze, ma potenza era: “indipendente sempre, ma
isolata mai”. Europea dalla nascita, come si
conviene alla Magna Mater della civiltà
greco-latina, non reclinata su se stessa da miopi
risentimenti.
Quattro attentati al Re in pochi mesi
L'impulso all'unità attorno alla
Corona venne dagli eventi luttuosi evocati da
Liviero, solitamente dimenticati dai manuali e
dalla pubblicistica. Il 9 febbraio 1878 ebbe luogo
a Firenze il primo dei quattro attentati che
funestarono l'Italia sino al 20 novembre di
quell'anno. Mentre venivano celebrate messe
funebri in memoria di Vittorio Emanuele II nella
chiesa del Santo Sudario in Roma, presenti Re
Umberto e Margherita, il principe Amedeo duca di
Aosta, già re di Spagna, il governo e tutti gli
alti gradi dello Stato, e nella chiesa
metropolitana di Torino, come in altre cento
città, anche Firenze rese omaggio “all'anima
eccelsa” del sovrano defunto. All'uscita dal
Tempio di Santa Croce, mentre autorità e
associazioni d'arma e civili sfilavano
processionalmente, un individuo sul Lungarno
lanciò una micidiale bomba all'Orsini. Ferì cinque
persone. Sottratto al linciaggio, l'attentatore
risultò un internazionalista. L'indignazione
popolare esplose, ma il governo preferì mettere la
sordina a un episodio che si preferiva credere del
tutto isolato e in totale contrasto con il
sentimento diffuso nel Paese, anche per la
sopravvenuta morte di Pio IX, quasi il papa avesse
voluto raggiungere il re: scomunicato ma assistito
da don Valerio Anzino con l'amministrazione
dell'occorrente per la “buona morte”. Sennonché il
17 novembre Umberto I fu bersaglio dell'attentato
messo quasi a segno a Napoli dal muratore
anarchico Antonio Passannante, che conficcò il
coltello nella coscia del venerando Benedetto
Cairoli, subito levatosi a far da scudo al sovrano
con il quale era in carrozza al pari della regina
Margherita. La commozione fu enorme. Anziché
indebolita la monarchia ne risultò rafforzata. E
lo fu anche il neonato Istituto per la Guardia
d'Onore alla Tomba provvisoria di Vittorio
Emanuele II al Pantheon. Chi riteneva che lo
stesso Passannante fosse un caso a sé fu
immediatamente smentito. Infatti l'indomani, 18
novembre, ancora a Firenze, mentre autorità e
associazioni d'arma sfilavano in via Nazionale per
deprecare l'attentato di Napoli, un attentatore
rimasto ignoto gettò tra la folla un'altra bomba
all'Orsini. Causò due morti e vari feriti.
L'Arcivescovo di Milano e il
Patriarca di Venezia presiedettero di persona il
“Te Deum” di ringraziamento per lo scampato
pericolo corso dal Re. A Parigi il quotidiano
“République Française” asserì che l'attentatore
non era né socialista né internazionalista ma più
probabilmente borbonico o fanaticamente clericale.
Anche i circoli mazziniani, incluso quello romano
“Dei diritti dell'Uomo”, vivaio di futuri grandi
maestri repubblicaneggianti del Grande Oriente,
deplorarono l'attentato. Quattro anni dopo gli
arresti di Villa Ruffi (1874), crebbe il numero
dei repubblicani pronti a entrare alla Camera per
rafforzare le Istituzioni, bastione dell'Italia
unita, già presidiate dal neonato partito
radicale.
Il 20 novembre in tutta Italia venne
festeggiato il 27° genetliaco della Regina
Margherita, da nove anni madre di Vittorio
Emanuele, principe di Napoli e futuro Re d'Italia.
Particolarmente solenne risultò la manifestazione
filosabauda di Firenze. Il 21 quella città rese
omaggio alle vittime dell'attentato del giorno
precedente, con intervento del prefetto e la
partecipazione della Società Operaia. Nelle stesse
ore a Pisa gli studenti furono arringati dal
prefetto Cesare Bardesono di Rigas, senatore. Al
termine, mentre i giovani applaudivano,
l'esplosione di un'altra bomba scatenò il panico.
La terza in aggiunta al gesto di Passannante. A
Perugia comparve un manifesto internazionalista e
si verificarono scontri con molti feriti. Cominciò
a circolare l'opinione che l'attentato di Napoli
facesse parte di un complotto molto più vasto e
insidioso. Per liquidare alla radice ogni dubbio,
da Caprera Garibaldi telegrafò al presidente del
Consiglio, Cairoli: «Un bacio a voi,
congratulazioni al Re d’Italia.» Era sempre l'uomo
di “Italia e Vittorio Emanuele”. Tre anni dopo
egli capitanò la protesta italiana contro il
trattato del Bardo con il quale la “sorella
latina” impose il protettorato di Parigi sulla
Tunisia, suscitando l'indignazione dei democratici
di qua e di là delle Alpi, a cominciare da Victor
Hugo, e bollò la Francia come “République à
calotte”: una repubblica clericale. La sua ultima
sortita pubblica fu a Palermo nel 1882 per
celebrare i Vespri siciliani...
L'Istituto per la Guardia d'Onore
alla Tomba di Re Vittorio al Pantheon, di cui ha
scritto egregiamente Alfonso Marini Dettina nel
volume del 2009, aveva dunque pieno motivo di
svolgere il suo ruolo patriottico. Le sue
premesse, la sua articolata e talvolta
aggrovigliata genesi hanno trovato adeguata
sistemazione documentaria e critica nell'opera di
Alessandro Liviero, da anni autore di opere
validissime. Questo poderoso volume sarà
sicuramente apprezzato da Ugo D'Atri, presidente
dell'Istituto nazionale per la Guardia d'Onore al
Pantheon, giustamente orgoglioso delle opere che
illustrano le Tombe dei Re, ovunque esse
siano, da Roma a Vicoforte. Il volume, infatti,
propone il vastissimo pelago dell'associazionismo
dei veterani delle patrie battaglie in una
prospettiva completa del Risorgimento, iniziato
non nel 1848 ma dal marzo 1821 quando il
ventitreenne Carlo Alberto di Savoia, principe di
Carignano, Reggente per Carlo Felice, promulgò nel
regno di Sardegna la costituzione spagnola del
1812, ma con la conferma della tutela dei culti
riconosciuti. Tanti costituzionali ne
organizzarono la difesa con il governo provvisorio
animato da Santorre di Santarosa e dalla giunta
provvisoria presieduta dal saluzzese monsignor
Bernardo Marentini.
Da lì iniziò il cammino verso l'Unità
d'Italia coronato il 3-4 novembre 1918 con la
rotta dell'esercito imperiale asburgico dopo
Vittorio Veneto.
Aldo A. Mola
La copertina del volume dello storico
Alessandro Liviero, pubblicato da BastogiLibri
(Roma), con il sostegno di sottoscrittori il cui
novero è aperto dalla Principessa Maria
Gabriella di Savoia.