Editoriale di Aldo A.
Mola, pubblicato su "Il Giornale del Piemonte e
della Liguria" di domenica 16 giugno 2024
L'ora delle decisioni… revocabili
La discussione parlamentare del disegno di legge
costituzionale per l'introduzione in Italia del
cosiddetto “premierato” (infelice lemma
anglicizzante) è appena all'inizio e già risulta
incandescente. L'approvazione è disciplinata
dall'articolo 138 della Costituzione, che prevede
«due successive deliberazioni» di ciascuna Camera
«ad intervallo non minore di tre mesi». La
proposta è approvata se ottiene «la maggioranza
assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella
seconda votazione». La legge è quindi sottoposta
«a referendum popolare quando, entro tre mesi
dalla [sua] pubblicazione, ne facciano domanda un
quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila
elettori o cinque consigli regionali». Essa,
tuttavia, «non è promulgata se non è approvata
dalla maggioranza dei voti validi» espressi in
sede referendaria. Invece «non si fa luogo a
referendum» – precisa con formula
“baroccheggiante” la norma costituzionale – se nel
secondo scrutinio la legge sia stata approvata con
la maggioranza “rafforzata” dei due terzi in
entrambi i rami del Parlamento.
Insomma, la procedura di revisione della Carta non
è una passeggiata tutta in discesa. Mentre lo
Statuto del Regno era flessibile, la Costituzione
repubblicana è “rigida”, proprio per evitare
“colpi di mano” da parte di una maggioranza
parlamentare le cui fortune dipendono dagli umori
cangianti dei votanti, dalle leggi elettorali
(quelle che stanno bollendo in pentola sono
tuttora un mistero misterioso) e da eventi
internazionali fuori controllo da parte dello
Stato d'Italia.
I Costituenti partirono dal tacito
presupposto che le riforme della Carta non
riguardassero né i Principi fondamentali, né i
Diritti e doveri dei cittadini, né i poteri
apicali dello Stato. A ragion veduta, ovvero sulla
base dei settantacinque anni trascorsi
dall'entrata in vigore della Costituzione, si può
lecitamente osservare che forse sarebbe stata
opportuna qualche cautela ulteriore per mettere al
sicuro i capisaldi dello Stato da possibili colpi
di mano da parte del 50% dei componenti delle
Camere. Se una maggioranza modificasse
radicalmente la struttura della Carta, che cosa
potrebbe avvenire nei tre mesi decorrenti dalla
pubblicazione della legge alla eventuale richiesta
di referendum? Tre mesi sono nulla in tempi
ordinari. Possono divenire una voragine in quelli
di emergenza assoluta, come quelli segnati
dall'incombente “stato di guerra”.
La “concordia discors” dei Padri Costituenti
Nel 1946-1947 i partiti rappresentati
nell'Assemblea costituente in sei mesi
dall'insediamento si divisero in due schieramenti
sempre più netti e infine frontalmente
contrapposti dinanzi all'incipiente guerra fredda
tra i due blocchi, nettamente indicati dal
discorso di Churchill a Fulton il 5 marzo 1946:
l'“Occidente”, capitanato da USA e Gran Bretagna,
da un canto; l'Unione sovietica e i Paesi
rapidamente soggiogati dall'Armata Rossa e dai
partiti comunisti affratellati nel Kominform,
dall'altro. Però quella contrapposizione non
inficiò la concordia dei costituenti a un livello
superiore: la condivisione dell’obiettivo di
evitare il ritorno di un regime di partito unico.
Perciò vietarono «sotto qualsiasi forma, la
riorganizzazione del disciolto partito fascista»
(XII disposizione transitoria e finale). I
“patres” non specificarono però se tale fosse il
Partito fascista repubblicano sorto nel 1943 con
la Repubblica sociale italiana o quello Nazionale
fascista, nato massonofago a metà febbraio 1923
dalla fusione tra il partito mussoliniano e
l'Associazione nazionalista.
In acuti studi Aldo G. Ricci ha
approfondito il minore rilievo ottenuto dai
liberali e, in generale, dai “moderati” nei lavori
dell’Assemblea costituente. Meno ancora vi
contarono i monarchici, che vennero identificati
con gli ultimi due Re d'Italia e furono quindi
ingenerosamente demonizzati e pressoché ignorati
in Aula. Nondimeno è indubbio il peso esercitato
sia liberal-monarchici quali Luigi Einaudi,
Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Enrico
De Nicola, sia da Francesco Saverio Nitti, che si
condusse al di fuori di ogni schieramento, sia,
infine, dai Democratici del lavoro come Meuccio
Ruini, autorevole presidente della Commissione dei
Settantacinque che elaborò la bozza della Carta.
Insomma la Costituente resse al logorio al quale
era sottoposto l'“arco costituzionale”, rievocato
(o almeno invocato) decenni dopo per varare
governi “di emergenza” (come quelli della “non
sfiducia”), garanti della salvaguardia dei
capisaldi della democrazia parlamentare. Tre
quarti di secolo hanno mostrato che, così com’è,
l'assetto dei poteri supremi regge agli urti e
garantisce quanto è necessario e sufficiente in
una democrazia matura: la sovranità dei cittadini
tramite il voto (chi non lo esercita risponde
delle conseguenze della propria scelta), la
centralità del Parlamento, il ruolo arbitrale del
Capo dello Stato rispetto alle fazioni. Non per
caso i Costituenti ne fissarono la durata in
carica in sette anni, reiterabili, contro i cinque
delle Camere. Fu una delle tante positive
“eredità” della monarchia nel regime repubblicano:
propiziare la continuità della massima istituzione
al di sopra delle burrasche della politica
quotidiana e al riparo di fatui protagonismi.
Sulla proposta di revisione della
Costituzione oggi prevalgono tre orientamenti. Uno
si prefigge la sua approvazione a tamburo
battente, così come è stata presentata, costi quel
che costi: fosse pure un referendum. «O la va, o
la spacca», ha detto Meloni. Il suo punto di
debolezza logico-cronologica sta nella
dissociazione tra il principale proponente e
l'esito dell’eventuale consultazione referendaria.
Se dalle urne venisse un “no” alla proposta ciò
non potrebbe non ripercuotersi proprio su chi, con
la modifica della Carta, chiede sia il “popolo” a
eleggere il presidente del Consiglio, con poteri
rafforzati rispetto agli attuali e oggettivo
ridimensionamento di quelli riservati al
Presidente della Repubblica, come tutti i
costituzionalisti asseriscono. L'esito infausto
del referendum indebolirebbe chi ha assunto il
“popolo” a elettore diretto alla carica di
presidente del governo.
Un secondo orientamento, fiutato il
vento, mira a impedire che la proposta governativa
venga approvata dalle Camere nei termini previsti
dalla Carta e già si attrezza per una lunga
campagna referendaria, propizia all'accorpamento
del dissenso in opposizione unitaria frontale,
come è accaduto in passato. Se anche non se lo
fosse proposto, qualunque opposizione dai prossimi
mesi avrà il triste vantaggio di vedere il governo
alle prese con il declino del prodotto interno
lordo e la rarefazione delle risorse, con severe
conseguenze economiche e sociali, a prescindere da
quelle, imponderabili, di guerre fuori controllo.
Se anche restassero inerti e non trasferissero il
“confronto” da aule rissose a piazze rumorose, le
opposizioni avranno il vantaggio del malessere
diffuso, che dilaga in tanti Paesi dell'Unione
Europea sempre più labile per l’irrisolta
asimmetricità dei suoi istituzioni: Consiglio
europeo, Assemblea parlamentare e Commissione, tre
“corpi separati”.
Per terzi alcuni suggeriscono
all'opposizione di non respingere sic et
simpliciter la riforma proposta dal governo e di
proporre emendamenti correttivi. Lo fa Stefano
Folli in “Repubblica”. «A quoi bon?», direbbero
Oltralpe? Si porrebbero da sé a un bivio: accolti
i loro emendamenti, dovrebbero accettare la
riforma e quindi la propria sconfitta campale; se
respinti (a colpi di fiducia, come si prospetta),
si porrebbero in una posizione ambigua dinnanzi
all’opinione dei propri elettori, che non
apprezzerebbero tattiche bizantine in un confronto
che esige posizioni nette ed argomentate non con
circonlocuzioni verbose ma con parole chiare,
comprensibili e apprezzabili anche da parte del
50% e più di cittadini che mostra sfiducia nelle
Istituzioni disertando le urne e cambia canale
quando i telegiornali sciorinano la solita epopea
della politica politicante.
Un misterioso statuto monarchico post-fascista
(1945)
A cospetto dell’imminente ripresa della
discussione parlamentare sulla riforma della
Costituzione riesce interessante la riscoperta dei
tentativi di aggiornare lo Statuto lbertino nei
mesi precedenti la consultazione referendaria del
2-3 giugno 1946. È una pagina di storia pressoché
dimenticata. Motivo in più per rifletterci.
Si tratta di un “caso dormiente” di
storia costituzionale. Se ne era occupato Ruggero
Zangrandi in Settembre 1943, pubblicato da
Feltrinelli nel lontano giugno 1964. Esploratore
d'archivi, giornalista e scrittore di talento,
Zangrandi aveva alle sue spalle il Lungo viaggio
attraverso il fascismo, che nel 1947 aveva
documentato i trascorsi in camicia nera di tanti
maggiorenti dell'antifascismo e del postfascismo,
e il romanzo autobiografico La tradotta del
Brennero (1956) sulle sue peripezie di detenuto,
passato dalle carceri italiane in cui venne
rinchiuso per antifascismo a quelle naziste. In
una delle decine di Appendici di 1943 Zangrandi
pubblicò «Documenti sulla consulenza inglese per
la luogotenenza e per il progetto monarchico di un
nuova Costituzione». Con un titolo da rivista
accademica più che da libro “militante” l'autore
documentò come gli inglesi si fossero adoperati
«per salvare la dinastia di Savoia». Quel poderoso
volume suscitò polemiche aspre sul presunto
“baratto” tra il governo Badoglio e i tedeschi. Il
Maresciallo avrebbe avuto via libera da Roma verso
Pescara e la Puglia in cambio dell'inazione delle
forze armate italiane contro le divisioni
germaniche che, dilagate da fine luglio, avevano
ormai circondato la capitale e si impadronirono
dell'Italia centro-settentrionale: un’insinuazione
confutata anche da storici poco teneri nei
confronti della monarchia, compreso Marco
Patricelli, autore di Tagliare la corda (2023).
Nella seconda edizione del libro (novembre 1964:
all'epoca tanti italiani divoravano avidamente e
animatamente discutevano libri di oltre mille
pagine) Zangrandi aggiunse ai documenti (pp.
1068-1076) una cortese lettera di precisazioni
inviatagli da Guy G. Hannaford, che si era
occupato della Luogotenenza e dell'abbozzo di
nuova costituzione mentre era Deputy Chief Legal
Advisor della Commissione Alleata di Controllo in
Italia (1944-1945).
Nel 1970 Zangrandi si uccise. Col
tempo e con il cambio di temperatura politica,
esaurito l'“autunno caldo” del 1969, le polemiche
suscitate dai suoi libri si assopirono e il suo
stesso nome via via disparve dall'orizzonte degli
studi. Non è stato riesumato neppure
nell'ottantesimo del 1943. Già lasciato ai margini
nel 1964, il “caso” del progetto di aggiornamento
monarchico della costituzione italiana disparve,
tanto più che non affiorò neppure dalla
pubblicazione, parziale, dei “diari” di Falcone
Lucifero, ministro della Real Casa di Umberto,
Luogotenente e Re d'Italia.
Ciaurro e Palazzolo riscoprono Zagrandi:
Reggenza o Luogotenenza?
A sorpresa Zangrandi è stato
recentemente richiamato all'attenzione
dall'intervista rilasciata dal giurista Luigi
Ciaurro (docente di diritto parlamentare in due
Università romane di alto prestigio) al
giornalista Lanfranco Palazzolo, capo dei servizi
parlamentari per Radio Radicale e autore di saggi
su Leonardo Sciascia, Enzo Tortora, Marco
Pannella, Edoardo Sanguineti e sul “compagno
Napolitano”, dirigente del partito comunista
italiano (2011). Malgrado lunghe e accurate
investigazioni, Ciaurro non ha rintracciato
l'“abbozzo” di «nuova Costituzione, elaborato per
conto della monarchia nell'autunno '45,
evidentemente per influire sull'imminente
referendum istituzionale, che non fu poi
promulgata per ragioni che ci sfuggono»
(Zangrandi) e ha concluso l'intervista invitando
quanti conservino quel documento a renderlo di
pubblico dominio.
Non entriamo in questa sede nelle
ipotesi a tale riguardo velatamente avanzate dal
professor Ciaurro, né sulla sintesi che ne ha
proposto e sul suo possibile autore: forse il
torinese Emilio Crosa, giurista eminente ed
esponente del monarchico “Movimento Cavour”,
ricevuto con lo storico Francesco Cognasso da
Umberto II in visita a Torino il 6 ottobre 1945.
Interessa, invece, il commento che a suo tempo ne
fu redatto dal tenente colonnello Guy G.
Hannaford, incaricato di studiare l'istituto della
Reggenza dal brigadiere generale Gerald Upjohn,
d'intesa con Noel Mason-MacFarlane e Charles
Taylor, “plenipotenziari” anglo-americani
nell'Italia liberata. Erano i mesi nei quali molti
monarchici e liberali (incluso Benedetto Croce)
chiedevano (anche con veemenza) l'immediata
abdicazione di Vittorio Emanuele III, la rinuncia
al trono di suo figlio Umberto e la trasmissione
della Corona al principe di Napoli, Vittorio
Emanuele, di soli sette anni e quindi sotto un
Reggente. A giudizio di Hannaford «se il
principino di Napoli divenisse re sotto un
reggente (suo padre) e vi fosse un referendum
(sulla forma istituzionale, monarchia o
repubblica, N.d.A), nessuna donna italiana,
comunista o no, voterebbe per togliere il regno a
questo incantevole bambino. Ma tutto dipende dal
vecchio Vittorio». Come egli stesso narrò nella
lettera inviata a Zangrandi appena letto 1943,
Hannaford si procurò «per pochi soldi» il Nuovo
Digesto Italiano e alcuni saggi di
costituzionalisti, li studiò e approntò il
memorandum sulla Reggenza per rispondere a tre
domande: «Può il Re abdicare a favore di suo
nipote, scavalcando così i diritti dell'erede
legittimo, il principe di Piemonte? Esiste un
meccanismo costituzionale per il quale possa
essere nominato Reggente, per un re minorenne,
persona non facente parte della Casa Reale,
ammesso che il Re e il principe di Piemonte
possano essere persuasi ad abdicare? Si può
costituire un Consiglio di Reggenza e chi ne
potrebbero essere i componenti? (la Regina Madre,
il primo ministro, un rappresentante del Papa:
l'arcivescovo di Bari?)» Nel rapporto inviato ai
“superiori” il 21 dicembre 1943 Hannaford concluse
che «in nessun caso il Reggente può essere scelto
al di fuori della Casa Reale». Perciò la risposta
ai tre quesiti era negativa. Invitò a prendere in
considerazione la Luogotenenza anziché la
Reggenza, quale «possibile soluzione del
problema». Illustrò anche le condizioni della
nomina e della durata del possibile Reggente:
«Fino alla liberazione del territorio italiano dal
nemico e alla possibilità per il popolo italiano
di esprimere liberamente la sua volontà quanto
alla forma di governo che intende avere. Lo stesso
Re dovrebbe acconsentire ad attenersi al volere
del popolo; dichiarazione che, in pratica, egli
(Vittorio Emanuele III) ha già fatto.»
Dunque il conferimento della
Luogotenenza a Umberto di Piemonte (enunciata dal
Re al Consiglio dei ministri a metà marzo 1944 e
resa pubblica il 12 aprile) non sarebbe stato
ideato da Enrico De Nicola, come asserito dalla
storiografa e dalla memorialistica, ma era già
ipotizzato dagli anglo-americani su suggerimento
del tenente colonnello Hannaford, sia pure senza
l'indicazione esplicita del suo titolare e con una
precisa delimitazione delle sue prerogative:
«attività amministrative, legali e non-politiche.»
Era «l’unico modo di uscir fuori dal presente
impasse, dal momento che nessun'altra soluzione
appare attuabile, se non violando insieme la
Costituzione e i basilari Statuti del Regno».
Hannaford sorvolò sull'articolo 15
dello Statuto albertino, in forza del quale, in
assenza di eredi diretti del Re, di parenti
maschi e della Regina Madre «le Camere, convocate
fra dieci giorni dai Ministri, nomineranno il
Reggente», in carica «durante la minorità del Re»
(art. 12). L'omissione va verosimilmente
attribuita non a sua distrazione o incompetenza ma
alle circostanze di fatto: la Camera dei fasci e
delle corporazioni era stata sciolta il 27 luglio
1943 e lo stato di guerra impediva convocazione e
riunione del Senato. Per di più la Regina Madre
(la principessa Maria José) era riparata con i
figli in Svizzera. Per un ufficiale pragmatico
come lui l'articolo 15 dello Statuto era quindi
impraticabile. Tuttavia l'ipotesi della nomina di
un Reggente aleggiò a lungo. Quale suo titolare
venne persino individuato Badoglio, che ne informò
Vittorio Emanuele III, suscitandone l'irritazione
perché in totale violazione dello Statuto.
Una nuova Costituzione monarchica
Altrettanto interessante è il secondo memorandum
redatto da Hannaford «sull’abbozzo di costituzione
sottoposto(gli) per un giudizio», pubblicato da
Zangrandi e commentato dal professor Ciaurro in
dialogo con Palazzolo. Dalle osservazioni del
militare inglese si arguiscono le sue «parecchie
interessanti innovazioni, ma anche inaspettate
reminiscenze dell'immediato passato politico del
Paese oltre a un certo numero di deplorevoli
lacune”».
Zangrandi non pubblica la “relazione”
che accompagnò l'abbozzo “al Re”, ovvero al
Luogotenente, e omette molte annotazioni di
Hannaford (dal punto 3° all'11°). I “commenti”
pubblicati risultano interessanti. Egli osservò
che la riaffermazione della religione cattolica
romana quale “religione della Nazione” (con
garanzia di libertà e di protezione per le altre
religioni) valeva per l'oggi ma poteva non esserlo
più in futuro sicché quell'articolo sarebbe caduto
in disuso.
Ad Hannaford risultò curioso che per
dettato costituzionale il re dovesse essere
laureato e svolgere conferenze ogni anno in
università di sua scelta. «Il Re – egli osservò –
può essere un sovrano eccezionale e non un buon
conferenziere. Appare poco saggio infine esporre
la sua persona e la sua dignità al ridicolo di una
magra figura.» Peggio ancora, quell'abbozzo voleva
negare al re il diritto «d’indossare la sua
uniforme quando e dove ritiene opportuno». La
Suprema Corte Costituzionale prospettata
dall'abbozzo, benché «ardito esperimento»,
generava molti dubbi per la sua composizione.
Includeva infatti i presidenti dell'Organizzazione
generale del lavoro e della Federazione nazionale
degli imprenditori. Riecheggiava la Carta del
Lavoro del 1927, orgoglio del regime, e non
sarebbe stata «vista di buon occhio nei paesi
democratici». Per di più essa comprendeva il
vescovo di Roma (ovvero il Papa), «che è obbligato
a due obbedienze temporali». Nell'insieme, e in
sintesi, l' “abbozzo” andava «attentamente
revisionato, in modo da renderlo più convincente e
talvolta redatto più accuratamente».
La generalità dei monarchici ne
rimase all'oscuro. Non si sa quanti avrebbero
apprezzato l'articolo 2 che aboliva la legge
salica e consentiva «l’accesso al trono a eredi
maschi o femmine pari passu». Quella “Carta” finì
dimenticata sino a quando ne accennò Ora è
riesumata, come reliquia curiosa, dal
colloquio tra il professor Caurro a Palazzolo. A
conferma che le modifiche delle Carte
costituzionali sono impegno arduo, da affrontare
con pacatezza e lungimiranza, in una prospettiva
di unità anziché di scontro divisivo, tanto
più quando da anni si ode, sempre più vicino, il
rullio dei tamburi di guerra e bisogna puntare, se
necessario, a larghissime intese nell'interesse
generale e permanente dello Stato d'Italia.
Aldo A. Mola
Didascalia: Il Luogotenente Umberto principe di
Piemonte. Con il Disegno di legge
luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151 egli
trasferì al “popolo” l'elezione dell'Assemblea
che avrebbe deciso la forma dello Stato e, di
seguito, redatto la Carta. Con quell'Atto
solenne escluse iniziative unilaterali che
avrebbero violato la tregua istituzionale. Gli
giovarono certi monarchici “più monarchici del
Re”?