PER MEMORIA
OLTRE VITTORIO EMANUELE DI SAVOIA
Editioriale di Aldo A. Mola,
pubblicato su "Il Giornale del Piemonte e della
Liguria" dell'11.02.2024
Una persona insignificante?
Passata la tempesta s'odono augelli
far festa? Sì. Sono loro. Da un canto con la voce
roca qualche pavone richiama su di sé l'attenzione
mentre fa la ruota. Dall'altro imperversano le
cornacchie. Tutti insieme prendono a pretesto la
morte di Vittorio Emanuele di Savoia per
rinfocolare antiche polemiche contro i soliti
bersagli. Il primo è stato lui, il «principe
rimasto senza trono», l’«ultimo "non re”
d’Italia», «l’uomo che non voleva diventare re»,
«il principe che divenne affarista inseguito da
inchieste e polemiche». Sono alcuni titoli delle
pagine di quotidiani che ne hanno riepilogato le
vicende giudiziarie, dilungandosi nei dettagli di
cronaca per ricordare infine in due righe che da
indagini e processi andò assolto, se non per un
reato marginale, quale l'aver portato un'arma
fuori della sua dimora. Dunque niente di nuovo
sotto il sole. Un giornale ha sintetizzato
«Indietro Savoia», prendendo a prestito il titolo
di un libro di molto tempo addietro, infarcito di
pregiudizi e non privo di qualche svista.
Quali, in sintesi, i principali
addebiti mossi a Vittorio Emanuele di Savoia?
Innanzitutto essere stato un “personaggio
insignificante” e quindi immeritevole di tributi
pubblici. Ma allora, perché scriverne tanto,
sprecando carta, un bene sempre più prezioso? Poi
di essere una figura incompatibile con Torino,
“capitale della Resistenza e città dai forti
sentimenti repubblicani”. Senza nulla togliere al
capoluogo piemontese, le cui fortune dipesero
proprio dalla decisione di Emanuele Filiberto di
trasferirvi da Chambéry la capitale del ducato di
Savoia nel 1563, va ricordato che la lotta di
liberazione nazionale iniziò la sera stessa
dell'annuncio della resa (8 settembre 1943) a
Roma, a Bari e in tante altre città d'Italia ove
il Regio Esercito combatté da subito i tedeschi:
non solo perché la direttiva ricevuta era cessare
le ostilità contro le forze angloamericane e
reagire agli attacchi «da qualsiasi “altra parte”
provenissero», ma anche e soprattutto perché i
militari, legati dal giuramento di fedeltà al re,
avevano compreso che i “veri” nemici erano gli ex
alleati, i quali da tempo avevano fatto irruzione
in Italia con atteggiamento palesemente
aggressivo.
Massone: “uomo nero”? Come Garibaldi.
Passando dal generale al particolare,
in questi giorni la maggior parte delle
rievocazioni non ha mancato di menzionare l'“uomo
nero”: Vittorio Emanuele, figlio e nipote degli
ultimi due re d’Italia, fu massone. E allora?
Massoni furono pure moltissimi politici, scrittori
(bastino Giosue Carducci, Francesco De Sanctis,
Giovanni Pascoli e Salvatore Quasimodo) e ben
cinque presidenti del Consiglio dei ministri dopo
la proclamazione del regno d'Italia: Agostino
Depretis, Francesco Crispi, Giuseppe Zanardelli,
Sandrino Fortis e Luigi Luzzatti, ebreo. Solo un
famigerato spretato tra il 1920 e il 1945 fece
dell’appartenenza alla massoneria una sorta di
capo d'accusa nei confronti della Nuova Italia e
della sua dirigenza. Che si sappia, il maggiore
statista dell'epoca, Camillo Cavour, non fu
iniziato in loggia, ma lo era stato suo padre,
Michele, come la generalità dei maggiorenti
politico-culturali e militari di età
franco-napoleonica, a cominciare dal sommo
costituzionalista Giandomenico Romagnosi. Lo
stesso Giuseppe Garibaldi, massone dal 1844,
orgoglioso di indossare la divisa di generale
dell'Armata del regno di Sardegna nel 1859, nel
1862 venne proclamato “primo massone d'Italia” e
rivestì tutti i gradi eminenti delle diverse
comunità liberomuratorie italiane, inclusi il
supremo consiglio del Rito scozzese antico
accettato e il rito di Memphis-Misraim. Lo ricorda
Luca G. Manenti nella sua “Storia della Massoneria
italiana”, appena pubblicata (ed. Carocci). Senza
scomodare quello che a molti può sembrare il
passato remoto, va ricordato, ancora, che la
Costituzione vigente venne elaborata dalla
Commissione dei Settantacinque, presieduta da
Meuccio Ruini, iniziato nel 1901 nella loggia
“Rienzi” di Roma.
Assumere a “colpa” l'appartenenza
alla Libera Muratoria, di cui fecero parte
statisti eminenti di qua e di là dell'Atlantico,
come Winston Churchill e George Washington,
significa tornare a dipingere il Risorgimento e
l'unificazione nazionale quali frutti di un
complotto massonico ispirato da “arrières loges”,
“logge coperte” popolate da satanisti incalliti.
Insomma, vuol dire ripetere le corbellerie
ispirate da clericali fanatici che non perdonarono
mai a “Monsù Savoia” di aver annesso le Legazioni
dell'Emilia-Romagna e, via via, l’intero Stato
pontificio: cammino obbligato per realizzare il
sogno che generazioni di patrioti pagarono con
condanne al supplizio, al carcere duro, all'esilio
e che, quando venne l'ora, fecero quadrato attorno
all'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”,
condivisa anche da molti ecclesiastici. Sono
fiabe, codeste, care a Pio IX, che bollò le logge
quali “sinagoghe di Satana”. Continuano a
circolare in certi ambienti, ma sono confutate
dalla storiografia e ormai screditate.
E pure “piduista”
Già. Passi allora per il “massone”.
Ma, ripetono alcuni opinionisti, Vittorio Emanuele
di Savoia aderì persino alla loggia “Propaganda
massonica” n. 2, nota sbrigativamente come “P2”. E
questo basterebbe da solo a farne un mostro.
Sennonché, quella loggia faceva parte della
comunità massonica del Grande Oriente d'Italia,
con un regolamento che limitava il diritto di
visita da parte di “fratelli” massoni di altre
logge. Nulla di diverso rispetto a quello in
vigore nella Gran Loggia d'Inghilterra e altrove,
a tutela della serenità dell'appartenenza. Non per
caso la “P2” compare nella lista delle “officine”
delle comunità all'epoca in rapporti fraterni con
Londra: riconoscimento conseguito dopo anni di
impegno da parte di grandi maestri quali Giordano
Gamberini e Lino Salvini, che si valsero anche di
Gelli. Ma quella loggia non fu una congrega di
elementi pericolosi? Poiché occorre “stare
decisis”, va ricordato che l'imputazione di
cospirazione armata ai danni della Repubblica non
prese mai consistenza. Inoltre, nel 1994 la Corte
d'Assise di Roma assolse in via definitiva i
“piduisti” dall'accusa, del tutto fantasiosa, di
cospirazione politica. I suoi adepti erano uomini
d'ordine, in buona parte giunti ai vertici della
carriera nello Stato e nelle professioni e quindi
inclini a “conservare” e a stabilizzare il Paese
in una stagione di turbolenze come provavano gli
scioperi “selvaggi”, lo scontro tra fazioni
ideologiche, e, dopo attentati ancor oggi al
centro di indagini, l'inizio degli “anni di
piombo”.
La leggendaria “P2” era talmente poco
tenebrosa che il suo maestro venerabile (spesso
erroneamente menzionato come “gran maestro”)
inviava circolari ai suoi affiliati per posta
ordinaria, con il mittente in bella vista. Per
conferma, basti sfogliare gli Atti della
Commissione parlamentare d'inchiesta e leggere le
lettere che Gelli scriveva al “fratello” generale
dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa
indirizzandogliele alla Caserma Bergia di Piazza
Carlina a Torino. Non c'era niente da nascondere.
I progetti della loggia non contenevano nulla di
sovversivo né di eversivo, tant’è che vennero
fatti pervenire anche al presidente della
Repubblica.
Gli addebiti rinfocolati a carico di
Vittorio Emanuele di Savoia tra la notizia della
sua morte e la sepoltura risultano insomma
irrilevanti. Quanto alla sua personalità, al suo
“carattere”, le valutazioni sono discordanti, come
sempre accade. Dipendono dai ricordi personali.
Non solo. Spesso chi ne scrive non esprime giudizi
frutto di cognizione diretta, ma riporta
narrazioni di seconda o terza mano: sedimentate ma
non per questo attendibili. Alcuni lo ricordano
arrogante, altri affabile. Siffatti giudizi, nel
loro complesso, sono poco significativi e non
consentono di “sentenziare” sull’interessato né,
tanto meno, sui suoi predecessori e sull’intera
dinastia sabauda, come molti pretendono invece di
fare.
Italia e Nodi di Savoia
È invero fatuo e meschino prendere a
pretesto la vita degli epigoni per sminuire il
ruolo storico di Casa Savoia, artefice
dell’unificazione nazionale a metà Ottocento e
tassello fondamentale della politica europea di
quei decenni. A parte i legami dinastici con la
generalità delle Case regnanti in Europa, va
infatti ricordato che Maria Clotilde, figlia di
Vittorio Emanuele II, sposò Carlo Gerolamo
Bonaparte per suggellare l'alleanza
politico-militare tra il regno di Sardegna e
l'impero dei francesi: premessa della guerra del
1859 e delle imprese che seguirono, tra
cospirazioni, assemblee, richiesta di annessione.
Spada e diplomazia con il supporto di “servizi” e
di associazioni forzatamente segrete. Sua sorella
Maria Pia sposò il re del Portogallo. Il principe
Amedeo, I Duca di Aosta, fratello minore di
Umberto principe di Piemonte, e sposato con Maria
Vittoria dal Pozzo della Cisterna, nel 1870
assunse la corona di Spagna. Lisbona e Madrid
avevano profonde relazioni con l'America “latina”,
dal Messico alla Terra del Fuoco e con quel che
rimaneva degli imperi coloniali risalenti all'età
dei grandi navigatori.
Nata quale Stato unitario il 14 marzo
1861, l'Italia venne riconosciuta con avara
lentezza dalla comunità internazionale: un
percorso che richiese sette anni e fu coronato con
la conferenza di Londra nel 1867, punto di arrivo
della diplomazia orchestrata da Emilio Visconti
Venosta e da Vittorio Emanuele II che si impegnò
personalmente anche con il conferimento di Collari
della Santissima Annunziata a personalità di
estrazione non aristocratica, benemerite della
Corona e dell'Italia, e a figure eminenti non
cattoliche: evangelici, luterani, ortodossi,
islamici… via via sino al Siam e al Giappone. Era
l'“Italia in cammino” di cui poi scrisse
Gioacchino Volpe.
Perciò stupisce che, sempre prendendo
a pretesto la dipartita di Vittorio Emanuele di
Savoia, qualche “storico” anche subalpino si sia
spinto ad asserire una sorta di incompatibilità
congenita tra Casa Savoia e la Terza Italia. E chi
altri mai avrebbe potuto condurla in porto? Un
Asburgo? Un Borbone? Un Bonaparte? O Luciano
Murat, che proprio Napoleone III, suo congiunto,
tenne sotto ferreo controllo, tanto da sbarrargli
la strada all'ascesa a gran maestro del Grande
Oriente di Francia, da lui “commissariato” e al
quale impose un maresciallo dell'Impero di sua
fiducia, mai iniziato in loggia.
Questi sono i fatti e con essi la
storia deve fare i conti se non vuole scadere a
chiacchiera.
Qualcuno ha osservato, infine, che
nel corso degli anni Vittorio Emanuele di Savoia
mancò di senso della disciplina, retaggio secolare
della dinastia sabauda. Se ne può prendere atto.
Ma non gliene si può fare un addebito. Non fu lui
a decidere di non avere un Governatore, come lo
avevano avuto invece suo padre Umberto II e i
sovrani precedenti. Qiuando lasciò il Portgolgallo
per la Svizzera, la Regina portò con sé il decenne
Vittorio Emanuele, che non ebbe formazione
militare e politico-istituzionale. Il “mestiere di
Re” è tra i più complessi e ardui che immaginar si
possa. Comporta di formarsi a divenire capo dello
Stato, non su voto di un’assemblea ma su mandato
della Storia: fusione di peculiarità personali e
Tradizione della Casa, una “missione” metastorica
che anche Vittorio Emanuele III sentì e visse come
“sacra”. Per cogliere la straordinaria ricchezza
della formazione che Umberto II avrebbe potuto
assicurare al figlio giova il memoriale del
generale Carlo Graziani, suo segretario
particolare, “Da Cascais alle Piramidi. 1947-48”
(ed. Luni).
I conti con Vittorio Emanuele III
In questi giorni Vittorio Emanuele
III è stato evocato a sproposito con le solite
imputazioni: una sorta di “consegna” dell'Italia a
Mussolini nel 1922; le leggi anti-ebraiche del
1938 e la cosiddetta “fuga di Pescara” del 9
settembre 1943. Proprio perché si tratta di
ritornelli ripetuti sino alla noia, è giocoforza
ripetere ancora una volta in estrema sintesi
quanto effettivamente accadde.
Il 29 ottobre 1922 il re affidò la
formazione del governo a Benito Mussolini perché i
rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari
costituzionali nella notte del 27-28 precedente
chiesero l'ingresso dei fascisti nel governo e,
assente da Roma Giolitti e scartato Salandra, non
vi erano alternative. Vittorio Emanuele III dette
uno sbocco parlamentare alla crisi politica in
atto, come si conveniva a un monarca
costituzionale. A metà novembre il nuovo governo,
con tre soli ministri fascisti, ottenne la fiducia
dalla larghissima maggioranza dal Parlamento. In
Senato, di nomina regia e vitalizia, si contavano
due soli “patres” iscritti al PNF. La Camera dei
deputati era stata eletta a suffragio universale
nel 1921: era dunque espressione dei cittadini. Il
re non si condusse da despota ma da sovrano ligio
alla legge fondamentale: lo Statuto promulgato da
Carlo Alberto di Sardegna il 4 marzo 1848.
Lo Statuto imponeva al re di emanare
le leggi approvate dalle Camere. Fu il caso del
dicembre 1938, quando il parlamento, quasi alla
vigilia di Natale, approvò le famigerate leggi
razziali. A differenza del capo di Stato attuale,
il re non poteva né respingerle né promulgarle
“con riserva”. Alcuni dicono che per impedirne la
emanazione avrebbe dovuto abdicare. Se lo avesse
fatto, avrebbe messo il figlio Umberto nella sua
identica posizione. Se a sua volta questi avesse
abdicato, la corona sarebbe passata a suo figlio,
Vittorio Emanuele, principe di Napoli. Poiché
questi aveva appena un anno e se tutti i principi
del sangue avessero rinunciato ad accollarsi la
responsabilità deposta dal re, per Statuto le
Camere in seduta congiunta avrebbero nominato un
Reggente. Chi mai? Con ogni evidenza sarebbe stato
Mussolini. Erano le stesse Camere che avevano
appena approvato quelle leggi. Perciò Vittorio
Emanuele III prese su di sé il peso della Storia,
il “brut fardèl” della Corona come aveva
sussurrato morente Vittorio Emanuele II al figlio
Umberto . Solo a quel modo avrebbe potuto (come
avvenne) arginarne le conseguenze con norme
apposite, volte alla “discriminazione” dalla sua
efficacia.
La mattina del 9 settembre Vittorio
Emanuele, i Reali, il capo del govenro Badoglio e
il loro seguito lasciarono Roma, indifendibile dal
preponderate assalto germanico, per
raggiungere via Pescara/Ortona le Puglie,
non raggiunte da anglo-americani ed ove i tedeschi
venivano cacciati . L'auto del sovrano viaggiò con
lo stendardo del Capo dello Stato bene in vista.
Chi fugge lo fa di nascosto. Trasferendosi
all'interno del territorio nazionale, il re salvò
la continuità dello Stato. Dopo essere stato lui,
nessun altro, a liquidare il regime mussoliniano e
ad avviare i contatti per la resa, il 13 ottobre
dichiarò guerra alla Germania. L'Italia fu
cobelligerante a fianco delle Nazioni Unite e
scampò la sorte toccata ai tedeschi, rimasti
divisi per 45 anni, in parte sotto uno dei
peggiori regimi comunisti d'Europa.
Il giudizio della Storia
Poiché anelito supremo di Vittorio
Emanuele III, agnostico, era “il nome”, cioè il
ricordo che di sé avrebbe lasciato nella storia,
il sovrano si affidò alla comprensione dei
contemporanei (a cominciare dai cardinali elevati
a “cugini del Re”, come Eugenio Pacelli, asceso un
anno dopo alla Cattedra di San Pietro come Pio
XII) e dei posteri, chiamati a conoscere i fatti
per giudicare chi ne era stato protagonista.
Proprio la morte di Vittorio Emanuele
di Savoia è motivo di riflessione molto al di
sopra delle increspature della quotidianità.
Va infine ricordato, per completezza,
che nel 1970, con le nozze contratte con Marina
Ricolfi Doria senza previo assenso del Padre, egli
rinunciò consapevolmente allo status di principe
ereditario, perdendo il rango e il titolo e
riducendosi a “cittadino privato”, come Umberto II
gli aveva dettagliatamente anticipato nella
lettera scrittagli il 25 gennaio 1960 a seguito
delle notizie di stampa relative alle sue
probabili nozze con Dominique Claudel. Umberto fu
chiarissimo. Se si fosse sposato senza
l’autorizzazione del capo della Real Casa, tutti i
diritti dinastici spettantigli sarebbero passati
immediatamente al nipote Amedeo, Duca d'Aosta. Il
18 luglio 1963, a fronte di un'intervista
rilasciata da Vittorio Emanuele su sue imminenti
nozze con Marina Ricolfi Doria, il re rinviò il
figlio a quella stessa lettera. Era tutto quel che
doveva dirgli. Quale 44° capo famiglia dopo 29
generazioni Umberto II non poteva modificare le
leggi della Casa, precisate nel 1780-1882 da
Vittorio Amedeo III, re di Sardegna (le si legge
nell'insostituibile “Annuario della Nobiltà
Italiana” diretto da Andrea Borella). Il figlio
decise di procedere per la propria strada. Lo
rivendicò trent'anni dopo in “Lampi di luce” (ed.
Rizzoli), asserendo anche che in Italia la
monarchia era ormai improponibile. Ma allora
perché continuare a conferire ordini dinastici?
Mezzo secolo dopo egli ritenne infine
di abolire la successione al trono di maschio in
maschio: l'immutabile “legge salica” in vigore da
mille anni nella Casa sabauda. Grandi passi, “sed
extra viam”...
Queste ultime vicende ai più forse
interessano meno. Sono però ineludibili sia per
quanti si dicono monarchici sia per quanti
studiano la storia della monarchia che ha condotto
all'unificazione d'Italia.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Palazzo di Città di Racconigi, 19
settembre 1993. Scoprimento del busto bronzeo di
Umberto II. Dal balcone sventola il Triclore
Sabaudo, ammainato dalla torre del Quirinale il
13 giugno 1946, alla partenza di Umberto II da
Roma per il Portogallo. Essa venne affidata da
Vittorio Emanuele di Savoia ad Aldo A. Mola, che
tenne il discorso commemorativo, ed a Gianni
Seja, andati in “missione” a Vesenaz. Nel
pomeriggio, a Torre San Giorgio venne intitolata
la prima piazza in Italia a Umberto II “Re
d'Italia”, malgrado il parere contrario di una
deputazione storica.