da "Il Giornale
del Piemonte e della Liguria" di domenica 27
agosto 2023
Antonio Rosmini Serbati (Rovereto,
1797-Stresa, 1855) fu il massimo filosofo italiano
e teologo apprezzato da quattro papi della
prima metà dell'Ottocento: Pio VII, Pio VIII,
Gregorio XVI e Pio IX, che lo volle nella speciale
“commissione” per la proclamazione del dogma
dell'Immacolata Concezione benché ne avesse già
condannato alcune opere. Il suo libro “Le cinque
piaghe della Santa Chiesa” è sempre attuale.
Nell'ultimo capitolo Rosmini afferma che la Chiesa
deve vivere di offerte libere, non di tributi
imposti dallo Stato ai cittadini, deve rinunciare
a privilegi e pubblicare i suoi bilanci.
Appena stampata (nel 1848, ma era stata scritta
nel 1832) l'opera finì nell'Indice dei libri
proibiti. Su delibera del Santo Uffizio, nel 1887
papa Leone XIII condannò quaranta “proposizioni”
del filosofo. A quei tempi l'Italia era divisa in
due dalla questione romana. Pio IX aveva
scomunicato Vittorio Emanuele II che, un boccone
dopo l'altro, con l'annessione di Roma del 20
settembre 1870, aveva debellato lo Stato
Pontificio e si era insediato al Quirinale.
Rosmini, cattolico adulto, filosofo
di polso e pensatore ammirato da Alessandro
Manzoni, Niccolò Tommaseo e dalla schiera di
cattolici liberali del suo tempo, nella seconda
metà del Novecento venne debitamente rivalutato
anche dalla Chiesa. Il 18 novembre 2007 fu
celebrata a Novara la sua beatificazione,
decretata da Benedetto XVI al termine di una
“causa” iniziata nel 1994.
La sua fattiva influenza sul pensiero
e sugli istituti di Carità è stata approfondita
dal Simposio organizzato a Stresa dal Centro
internazionale di studi rosminiani (21 al 25
agosto) con interventi, tra altri, di Ernesto
Galli della Loggia, Luca Mana, Federica La Manna,
Vittorio Sgarbi, Ettore Gotti Tedeschi, Alberto
Mingardi, Giovanni Maria Vian e dell'on. Daniela
Ruffino. Nel Simposio, ispirato da liberalità
rosminiana, si è parlato anche di carboneria
massoneria e società segrete. Il Simposio è
iniziato con la presentazione degli “Scritti
autobiografici. Diari” di Rosmini: un volume in
ogni senso poderoso, curato da padre Ludovico
Maria Gadaleta, che, con suor Benedetta Lisci, è
il punto di riferimento costante degli studi
rosminiani.
Particolarmente apprezzata è stata
l'ampia relazione svolta dalla Principessa Maria
Gabriella di Savoia su “Rosmini e Casa Savoia”
anche perché Carlo Alberto di Sardegna, il Re
dello Statuto, nel 1848 affidò a Rosmini la
delicata missione presso Pio IX per rinsaldare i
rapporti tra il “Piemonte” e lo Stato Pontificio
dopo l'Allocuzione del 29 aprile con la quale il
papa si era dissociato dalla guerra contro
l'Impero d'Austria.
Per la sua importanza
proponiamo ai lettori del “Giornale del Piemonte e
della Liguria” la Relazione della Principessa,
presidente della Fondazione Umberto II e Maria
José e custode della memoria storica di Casa
Savoia.
Aldo A. Mola
CARLO ALBERTO E ANTONIO ROSMINI
DUE PROFETI DELLA CONCILIAZIONE
di Maria Gabriella di Savoia
Carlo Alberto di Savoia (1798-1849), Re di
Sardegna, e Antonio Rosmini Serbati
(1797-1855) sono due protagonisti della storia
della prima metà dell'Ottocento. Carlo
Alberto fu acclamato Re d'Italia sul campo di
battaglia di Goito nel 1848. Per consenso
generale, Rosmini fu il massimo filosofo e teologo
della Chiesa cattolica. Le loro biografie mostrano
tratti accomunanti che, pur nella diversità dei
ruoli svolti, ne fanno emergere le “virtù
eroiche”. Carlo Alberto sentì di essere
chiamato dalla Provvidenza a realizzare la
missione sognata da generazioni di patrioti:
avviare l'indipendenza e l'unità dell'Italia.
Anche nel pensiero di Rosmini, sintetizzato nella
formula “Adorare, Tacere, Gioire” la Provvidenza è
centrale.
Entrambi si sentirono
votati al rigore, al sacrificio e a un ruolo di
profeti. Di Carlo Alberto lo scrisse Giosue
Carducci nell'Ode “Piemonte”. Di Rosmini lo
affermò Papa Paolo VI in un udienza concessa alle
suore rosminiane.
La predestinazione
In Carlo Alberto la dedizione a una
missione metastorica fu instillata sin
dall’infanzia dal pastore Jean-Pierre Vaucher che
molto incise sulla sua inclinazione
all’introspezione spinta sino alle soglie del
misticismo. Ne scrisse egli stesso in lettere
confidenziali e in appunti. Nel corso di viaggi e
cerimonie, circondato dalla folla che gli mostrava
affetto e devozione anche con chiassose feste
tradizionali, il sovrano si chiudeva in se stesso.
Sentiva la struggente sete di solitudine di
cui scrisse con sensibilità il suo primo biografo,
Costa di Beauregard, in La Jeunesse du Roi
Charles Albert:lo prologue d’un règne.
Carlo Alberto medesimo confidò le sue
certezze a Quelques unes des nombreuses graces que
le Seigneur me fit. Vi ricordò di essere
stato salvato da due tentativi di
avvelenamento, due rischi di morire tra le fiamme,
due incidenti durante giochi infantili, due
volte dal pericolo di spezzarsi collo e reni, due
di rimanere sotto il calesse ribaltato, due gravi
incidenti di caccia, due rischi di naufragio, due
di cadere vittima di attentati, due per la caduta
improvvisa del cavallo sotto di sé: la prima volta
mentre accompagnava Vittorio Emanuele I, da poco
restaurato a Torino sul trono del regno di
Sardegna, mentre si recava a Superga nella
festa del nome di Maria; la seconda mentre
audacemente saltava un largo fossato e il cavallo
mancò la presa sul terreno...
Se la Provvidenza, anzi il Seigneur (come
Carlo Alberto scrisse) in tante occasioni gli
aveva mostrato così benevola attenzione voleva
dire che era preservato per una missione
altissima: unire l’antica e la nuova storia,
superare contrasti apparentemente
invalicabili, avviare verso sintesi e nuove forme
di conciliazione. Non per caso il suo motto fu
“Tutto migliorare e tutto conservare”.
Il Re dello Statuto e della guerra per
l'indipendenza
Asceso al trono trentatreenne,
il Principe di Carignano prese su di sé la storia
della Casa e ne portò la croce: “cilicio ed
estasi” è stato scritto della sua complessa
personalità studiata da Francesco Cognasso e da
Narciso Nada, da Romolo Quazza e da Giorgio Falco,
storico acuto della preparazione dello Statuto
promulgato il 4 marzo 1848.
Proprio lo Statuto, apprezzato dal
Presidente Emerito della Repubblica, senatore
Francesco Cossiga, che ne volle la ristampa
anastatica, fu l’approdo del percorso intrapreso
dal re sin dall’adolescenza. Il re volle la Carta
quale fondamento e cornice di un’era novella. Va
ricordato che sin dal novembre 1847, quattro mesi
prima della promulgazione dello Statuto, con regie
patenti Carlo Alberto rese elettivi i consigli
comunali, provinciali e divisionali: migliaia e
migliaia di cittadini furono chiamati a
scegliere liberamente la classe dirigente locale.
E questa divenne i vivaio dei futuri componenti
della Camera del Regno di Sardegna e poi di quello
d'Italia.
Il marzo 1848 annunciò la Nuova Italia
fondata sull'uguaglianza dei cittadini dinnanzi
alle leggi qualunque sia la loro confessione
religiosa e sulla adozione del “tricolore
nazionale” in luogo della bandiera azzurra della,
ma con lo scudo sabaudo nel bianco. Entrambi
fondamenti dell'unità nazionale durarono un
secolo, nella buona e nella cattiva sorte.
Al centro di una storia segnata da tumulti,
insurrezioni, rivoluzioni, guerre, tra “primavera
dei popoli” e conflitti dinastici, Carlo Alberto
consumò l'ultima stagione della sua parabola tra
il marzo e il luglio 1849. A differenza di quanto
solitamente si crede, la battaglia di Novara fu
provò il valore dell’Armata sarda. I “piemontesi”
inflissero agli asburgici perdite superiori a
quelle subite, come documenta Piero Pieri nella
Storia militare del Risorgimento. Però Carlo
Alberto ebbe chiaro che il suo Regno aveva risorse
materiali e militari del tutto inferiori rispetto
all'Impero d'Austria. Esso contava però su una
forza morale superiore: lo Statuto, che aveva
aperto definitivamente la via verso l'unità e
l'indipendenza. Per salvare la sua missione e
consegnarla al futuro, doveva abdicare e offrirsi
quale esempio supremo di sacrificio a cospetto
dell’Europa sia dei sovrani sia dei movimenti
“popolari” e dei travagli spirituali che da
decenni animavano le pagine di Silvio Pellico e di
Vincenzo Gioberti, dei Tapparelli d’Azeglio
(Roberto, Massimo e il loro fratello gesuita,
Luigi) e di Antonio Rosmini Serbati.
Carlo Alberto lasciò in eredità al figlio
Vittorio Emanuele II le grandi riforme avviate sin
dall'ascesa al trono in ogni settore della vita
pubblica e sociale: Consiglio di Stato,
istruzione, promozione delle comunicazioni,
fondamentali per lo sviluppo dell'economia,
riassetto della burocrazia e delle Forze armate e
promozione di istituti caritativi d'avanguardia.
Attuò una immensa opera di ammodernamento senza
clamori, anticipando il corso della storia.
Rosmini filosofo, teologo e protagonista
“politico”: fede e libertà
Per quanto possa sconcertare, in
tempi recenti sono comparsi profili dei Regni di
Carlo Felice e di Carlo Alberto nei quali il nome
di Rosmini neppure compare. Eppure il
trentennio di storia che lo ebbe
protagonista tra il marzo 1821 e il 1849 non sono
comprensibili se si smarriscono i suoi fondamenti
religiosi e ideali e se ne trascurano le figure di
riferimento. Tra queste Antonio
Rosmini Serbati si staglia al di sopra di ogni
altra. Il discendente del principe Tomaso
Francesco di Carignano lo sentì vicino,
affine, più dei molti e pur importanti
teologi e filosofi a lui coevi.
Anzitutto colpisce un dato
apparentemente esterno ma suggestivo. Carlo
Alberto fu il Savoia dei quattro re: nel corso
della sua vita si susseguirono sul trono i tre
fratelli, Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I e
Carlo Felice, e poi, alla conclusine del suo
ventennio di regno, tra il 1831 e il 1849, iniziò
quello di suo figlio, Vittorio Emanuele II, che in
un un decennio condusse il Piemonte dalla
sconfitta alla proclamazione del regno d'Italia,
nel marzo 1861.
A sua volta Rosmini fu l’ecclesiastico dei
quattro papi: Pio VII, il cui Panegirico
egli pronunciò a Rovereto nel 1823 subito
suscitando l’allarme dell’Austria; Pio
VIII, che ne incoraggiò gli studi e la
pubblicazione del Nuovo saggio sull’origine delle
idee, pilastro portante del suo sistema filosofico
e, conseguentemente, della sua concezione della
società ; Gregorio XVI, che Rosmini conobbe e
apprezzò, ricambiato, sin dal suo primo viaggio a
Roma; e infine Pio IX, che nel 1849 egli
seguì nell’esilio da Roma a Gaeta e a Napoli con
l’affetto filiale di chi nel Pontefice vide sempre
il Vicario di Cristo.
Questa certezza è il caposaldo
indispensabile per comprenderne ragione e fede, i
sentimenti e la pienezza della forza argomentativa
da Rosmini versata nel Trattato della coscienza
morale, nella Filosofia del diritto e nel celebre
saggio su Le cinque piaghe della Santa
Chiesa: opera che fece da spartiacque nella
sua operosa esistenza e per molti aspetti conserva
una straordinaria attualità.
Colpisce l’assonanza del suo
itinerarium mentis in Deum con quello di Carlo
Alberto. Mentre il principe di Carignano viveva
nascostamente nel Castello di Racconigi attendendo
il suo astro tra memorie e libri, dal nativo
Trentino Rosmini si trasferì a Milano. Scelse di
vivere presso San Sepolcro, la chiesa che
sin dal nome distintivo costituiva una lezione
quotidiana. Da lì si sentì chiamato al Santo
Calvario di Domodossola: uno spazio propizio alla
meditazione.
Come Carlo Alberto si sentì e rimase
re, biblicamente responsabile nei confronti
dei sudditi, così concentrazione su
filosofia e teologia Rosmini trasse forza per
avviare opere di carità: rafforzate anche dal suo
incontro con il cattolicesimo subalpino, in un’età
segnata da fervide iniziative, come
ricordano le congregazioni religiose volute da
Giuseppe Cottolengo, e da Giulietta Falletti di
Barolo, nata Colbert (ma a questi pochi esempi
molti altri potrebbero essere aggiunti).
In Religione cattolica e Stato
nazionale dal Risorgimento al secondo dopoguerra
lo storico Francesco Traniello ha richiamato
l’attenzione sulla pastoralità dell’impegno dei
cattolici soprattutto piemontesi di metà
Ottocento, a cominciare da Vincenzo Gioberti,
solitamente considerato un democratico “acceso” ma
in realtà poco fiducioso nella spontanea bontà
dell’uomo. Anche per Gioberti la virtù
è frutto di conquista, autodisciplina, sacrificio.
Altrettanto valeva per Carlo Alberto, che
aveva senso drammatico della storia e del prezzo
che il suo corso esige. Lo scrisse con “parole non
caduche “ (la definizione è dello storico
Francesco Salata): “Peu de grands exemples ont
sauvé milliers de personnes, ont raffermé la
discipline dans l’armée et preservé nostre pays
des scènes de désordres qui ont désolé et
ensanglanté d’autres nations”.
Su quelle premesse, nella certezza che
l’interlocutore sapesse cogliere l’animo di chi lo
elesse a proprio tramite, Carlo Alberto inviò
Antonio Rosmini a Pio IX, in veste di “messo
straordinario”, per gettare le basi di un
concordato tra il regno di Sardegna e il Sacro
Soglio e verificare la fattibilità della ventilata
confederazione degli Stati italiani con presidenza
del Santo Padre. Rosmini era chiamato ad attuare
il sogno dei cattolici liberali, per i quali
l’unione degli italiani era nell’ appartenenza
alla Chiesa, senza necessità di unificazione sotto
una medesima corona. Le tragiche vicende della
lotta politica in Roma spezzò sul nascere ogni
speranza. L’assassinio di Pellegrino Rossi (15
novembre 1848) anziché mostrò il crudo volto del
primato del del terrorismo politico, a tutto
vantaggio di chi, come il cardinale Antonelli, era
contrario a vere riforme dello Stato pontificio in
direzione liberale e costituzionale.
Chiusa ogni ipotesi di un governo da lui
presieduto e del conferimento del cappello
cardinalizio quale meritato riconoscimento
della sua opera teologica, filosofica e di
organizzatore dell’Istituto della Carità, a
Rosmini non rimase che tornare a Stresa:
spettatore dell’ultima dolente fase del
regno di Carlo Alberto.
Se ne deve concludere che egli sia
stato uno “sconfitto”? In una visione di breve
periodo ci si potrebbe o dovrebbe rassegnare ad
ammetterlo. Ma in una osservazione storica di più
ampio respiro va constatato che nell’ultimo lustro
di vita Rosmini rimase il punto di riferimento
carismatico per Alessandro Manzoni, Niccolo
Tommaseo e per uno stuolo di cattolici come lui
convinti della conciliabilità tra fede e
liberalismo. Tra i molti basti ricordare il grande
Cesare Balbo, autore delle Meditazioni storiche in
cui riprese e approfondì le Speranze d’Italia, e
Massimo d’Azeglio.
Padre Atanasio Canata, autore
del Canto nazionale e docente nel collegio
scolopico di Carcare, a metà del
“decennio di preparazione” dominato da
Camillo Cavour, osservò che fra il 1853 e il
1855 morirono decine e decine di
cattolici-liberali di grande autorevolezza: Cesare
Balbo, Silvio Pellico, Antonio Rosmini appunto e
molti molti ancora, quasi un’epoca si stesse
chiudendo e le loro vite risultassero superflue.
Così non fu. Infatti le loro opere, gli
scritti e gli esempi di vita, continuarono ad
alimentare il dialogo tra l’Italia nascente e la
Chiesa, tra il pensiero cattolico e quello di
liberali che, va osservato, non furono mai
irreligiosi né meno ancora anticristiani.
Risulta significativo che nessuno
abbia mai proposto di abolire o modificare
l’articolo 1 dello Statuto e che dal canto suo nei
momenti fondamentali, soprattutto nelle ore più
difficili, la Chiesa di Roma non abbia mai fatto
mancare il sostegno diretto e netto al giovane
regno d’Italia: a conferma del magistero morale e
culturale dei due giganti solitari, Carlo Alberto
e Rosmini.
In tale contesto va infine ricordata
la proposta avanzata dal re di Sardegna
all’illustre filosofo di traslare le salme dei
Principi sabaudi da Superga alla Sacra di San
Michele: sperone erto a vegliare sull’integrità
del regno proprio nella valle che ne aveva veduto
gli albori quasi un millennio prima.
Antonio Rosmini fu il pensatore di
riferimento di altri quattro papi: Giovanni
XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo
II. Se papa Leone XIII nel 1887 aveva condannato
all'Indice quaranta sue “proposizioni”, sin dal
Concilio ecumenico vaticano II, su impulso di
monsignor Luigi Bettazzi, iniziò la sua riscoperta
a valorizzazione, coronata con la beatificazione
pronunciata da papa Benedetto XVI e celebrata a
Novara il 18 novembre 2007. La Chiesa ha
riconosciuto le sue virtù eroiche.
Vi è motivo di sperare che in
una visione matura del cammino umano altrettanto
faccia la storiografia con la figura e l'opera di
Re Carlo Alberto: non “italo Amleto”, né “Re
tentenna” ma profeta della Nuova Italia, capace di
conciliare fede e libertà, storia nazional e
missione universale come prospettato dal pensiero
di Antonio Rosmini.
Maria Gabriella di
Savoia