Presidente del Consiglio
come “sindaco d'Italia”?
L'accordo quadro di programma della coalizione Forza
Italia-Lega-Fratelli d'Italia, probabilmente prevalente alle elezioni
politiche del 25 settembre 2022, al punto 3 (Riforme istituzionali,
della Giustizia e della Pubblica Amministrazione secondo la
Costituzione) propone la “Elezione diretta del Presidente della
Repubblica”.
La riflessione sulla storia conduce a concludere che essa non si addice
all'Italia.
Va osservato, in premessa, che la coalizione “Azione-Italia Viva”, cioè
il “Terzo Polo” guidato da Carlo Calenda e Matteo Renzi, propone una
profonda revisione del Titolo V della Costituzione alla luce delle
misure adottate per contenere gli effetti della pandemia di covid-19 e
sue varianti, quando emerse imperiosamente la necessità della clausola
di supremazia dell'interesse nazionale su pulsioni particolaristiche. A
differenza dell'accordo quadro FI-Lega-FdI, il “Terzo Polo” propone
l'elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri sul
modello dei sindaci delle città più grandi, che verrebbe implicitamente
designato dal voto popolare. L'elezione “diretta” del capo del governo
mette in discussione la prerogativa fondamentale del rapporto tra capo
dello Stato e presidente del Consiglio. La Costituzione vigente riserva
al primo la nomina del secondo, al quale spetta la scelta della rosa di
ministri da proporre al capo dello Stato per la nomina di rito (art. 92
comma 2). La riforma prospettata da “Azione-Italia Viva” è dunque
gravida di incognite per le istituzioni supreme dello Stato.
L'elezione “popolare” del capo dello Stato
L'accordo quadro del centrodestra suscita perplessità anche maggiori.
In primo luogo anziché di “elezione diretta” sarebbe meglio parlare di
“elezione popolare”, in linea con l'art. 1 comma 2 della Carta, senza
però trascurare che la sovranità del “popolo” va esercitata “nelle
forme e nei limiti della Costituzione” stessa. Come è stato osservato
da autorevoli costituzionalisti, ma con prevalente attenzione per
aspetti formali di architettura della Carta, la cosiddetta “elezione
diretta” richiederebbe un’imponente serie di riforme ulteriori della
Costituzione. Poiché l'elezione popolare ha il carattere di
“plebiscito” o (come scrive la Carta) di referendum occorrerebbe in via
preliminare stabilire le garanzie minime di validità del
pronunciamento. Chi lo indice? E quale dovrebbe essere la percentuale
minima di partecipanti e di voti validi per rendere la consultazione
politicamente rappresentativa? E a chi dovrebbero essere indirizzati
eventuali reclami su svolgimento ed esito della consultazione?
Alle obiezioni di natura tecnica se ne aggiungono altre, di
maggior peso, che si basano sull’esperienza della storia.
Di buono c'è che questo Parlamento è sciolto. Ha fatto tutti i danni
possibili, compresa la drastica riduzione dei componenti delle Camere
da eleggere il 25 settembre. Da lì la rissa, a volte indecorosa, tra
gli aspiranti allo scranno, da alcuni inteso come sedia a dondolo quasi
vitalizia in attesa dell'ascesa spintanea al Colle più alto (nessun
riferimento al “democratico” Pierferdinando Casini). A differenza del
Senato, la Camera dei deputati non ha varato le riforme regolamentari
minime indispensabili per agevolare l'opera di quella eligenda. Il suo
avvio sarà quindi molto travagliato. Se la legislatura ora al capolinea
è la peggiore di quelle susseguitesi dal 1948 a oggi, la prossima sarà
tutta in salita, anche perché nessuno dei tre governi succedutisi dal
2018 ha frenato l'aumento del debito pubblico. A prescindere dalle
migliori intenzioni del presidente Mario Draghi e di alcuni ministri,
neppure il governo in carica è riuscito a invertire la rotta e a
bloccare l'aumento del deficit, destinato a pesare come un macigno
sulle generazioni venture. L'Italia, dunque, malgrado la litania di
sciagure rimane il Paese di Bengodi?
Il Bicameralismo: da
migliorare, mai da abolire
Per scongiurarne l'altrimenti inevitabile tracollo occorre,
innanzitutto, sgombrare il campo da dispute intempestive sull'assetto
istituzionale prossimo venturo. Per fortuna nessuno propone
l'eliminazione del bicameralismo. E questa è buona cosa. Tempo addietro
(appena ieri, a ben vedere, ma sembra anni luce lontano dall'oggi)
Matteo Renzi propose la riforma del Senato e dei suoi poteri. Non
risultò convincente. Il referendum del 2016 gli dette torto. Se è vero
che prima o poi occorrerà superare il cosiddetto “bicameralismo
perfetto” o “paritario”, anche in quest'ultima legislatura il Senato ha
bocciato o almeno temperato tanti ardori della Camera. Non sarà per
caso che il bicameralismo vige in tutte le democrazie parlamentari.
Il monocameralismo è di matrice giacobina. Per pavidità dei loro
componenti e/o per tracotanza delle minoranze rumorose, i parlamenti
monocamerali sono sempre dominati dalle fazioni più aggressive. In
Inghilterra la camera dei comuni condannò Carlo I alla decapitazione.
Eletta sull'onda delle “stragi di settembre”, la Convenzione
repubblicana francese del 1792 dette la stura a un fiume di crimini
politici spacciati come difesa della patria in pericolo: vietato
pubblicare, vietato parlare, vietato pensare. Al confronto con il
Terrore imposto da Robespierre (che, come Stalin, non per caso era
stato in seminario) persino la “Santa Inquisizione” risulta un modello
di correttezza: quanto meno prevedeva un processo.
Poiché, quando si parla di storia nulla va taciuto, occorre ricordare
che la Costituzione della Repubblica romana approvata alle 2 del
mattino e varata a mezzogiorno del 3 luglio 1849 fu per molti aspetti
lungimirante e meritoria. Con l'art. 5 abolì la pena di morte; con gli
articoli 6 e 7 dichiarò libera la manifestazione del pensiero e
dell'insegnamento. Però essa istituì un'unica Assemblea. Esattamente
l'opposto della monarchia rappresentativa instaurata Carlo Alberto di
Savoia re di Sardegna con lo Statuto del 4 marzo 1848, ripubblicato in
edizione anastatica dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga,
cattolico liberale.
Con l'ottimismo sfrenato di chi organizzò complotti, insurrezioni,
rivoluzioni e defezioni dei suoi seguaci dal campo di battaglia (come
deplorò Giuseppe Garibaldi che se ne sentì tradito) e aveva
l'attenuante di credere negli angeli, Mazzini scommise su un'Assemblea
che ricalcava il modello della Convenzione francese. La “sua”
costituzione fu approvata mentre i francesi di Luigi Napoleone
Bonaparte principe-presidente eletto con plebiscito irrompevano in Roma
e Garibaldi prendeva la via verso l'indomita Venezia alla testa di
duemila volontari ai quali promise “sudore e sangue”. Mazzini si
eclissò. Se pochi mesi dopo fosse stato chiamato alle urne per eleggere
il capo dello Stato, il popolo romano non avrebbe esitato a votare in
massa per Pio IX, papa-re, perché alla bonaria tirannide degli
ecclesiastici era abituato, mentre i “liberatori” avevano lasciato
pessima memoria di sé, dai “lanzi” capitanati da un luterano, autori
del “sacco” del 1527, ai giacobini del 1798, ricordati come calamità.
Il l4 marzo 1861 il Parlamento bicamerale del neonato Stato unitario,
sorto dalla concatenazione insurrezioni liberali-annessione-conferma
plebiscitaria, riconobbe “Vittorio Emanuele II, Re d'Italia”, che già
lo era. Umberto I e Vittorio Emanuele III entrarono in carica per
diritto ereditario e giurarono fedeltà allo Statuto, legge fondamentale
perpetua e irrevocabile della monarchia, a cospetto delle Camere
riunite, espressione della volontà popolare. Tutto semplice e chiaro.
Nel bene e nel male, in Italia quel regime resse sino al cambio della
forma dello Stato.
La divisività
dell'elezione popolare del capo dello Stato:
Nel 1946-1947, ormai in piena Guerra Fredda, presto dominata
dall'“equilibrio del terrore”, i costituenti erano divisi su molti temi
fondamentali ma, fatte le debite eccezioni, concordarono su alcuni
capisaldi: impedire qualunque ritorno del fascismo “storico”, sia del
“ventennio” sia della Repubblica sociale; far dimenticare la monarchia;
ridurre ai minimi termini l'influenza della tradizione liberale (ne ha
scritto Aldo G. Ricci); includere nella Carta i Patti Lateranensi
italo-vaticani (pazienza se a firmarli con il cardinale Pietro Gasparri
era stato Benito Mussolini, “credente” a giorni alterni) e far eleggere
il capo dello Stato da parte delle Camere in seduta congiunta e dai
rappresentanti delle regioni.
In quell'Italia era chiaro che l'elezione diretta (o “popolare”) del
presidente della neonata Repubblica avrebbe spaccato il Paese. C'erano
tutte le premesse. Il 2-3 giugno 1946 gli italiani si erano
riconosciuti in una manciata di partiti, il più votato dei quali, la
Democrazia cristiana, aveva ottenuto appena il 32,5%, mentre il Partito
socialista (secondo per numero di voti con gran dispitto di Palmiro
Togliatti) e il comunista erano rimasti al 20% ciascuno, seguiti a
distanza dagli altri, sino al Partito d'azione che, sfaldatosi al suo
primo congresso, racimolò un mortificante 1,4%. Dopo decenni di
conformismo coatto nelle file del “partito unico”, gli elettori si
distribuivano dunque a ventaglio.
Quello stesso corpo elettorale si divise invece quasi a metà nella
scelta della forma dello Stato: 12.700.000 per la repubblica contro
10.700.000 per la monarchia e 1.500.000 schede bianche. Il referendum
risultò dunque divisivo e politicamente pericoloso. Se ne ebbe la
conferma il 18 aprile di due anni dopo quando al bivio tra “Occidente”
e Unione sovietica il 48% dei voti andò alla Democrazia cristiana,
mentre il Fronte popolare socialcomunista si fermò al 30%. Anche quello
fu un plebiscito: o di qua o di là. La DC, però, non soggiogò il
Parlamento né poté governare da sola perché “una tantum” furono immessi
nella Camera Alta un centinaio di “senatori di diritto” in buona parte
di sinistra o “centristi” non clericali (liberali, riformisti,
democratici del lavoro...). In quelle condizioni l'elezione diretta del
capo dello Stato avrebbe certamente assicurato la vittoria a un
esponente della Democrazia cristiana. Per quanto stimati, il liberale
Luigi Einaudi (eletto) e Vittorio Emanuele Orlando, a sua volta
liberale e proposto dalle sinistre, non avrebbero avuto storia.
Fiutato il pericolo, di referendum “politici” non si parlò più per
quasi trent'anni. Nel 1974 quello imposto dalla Chiesa ad Amintore
Fanfani per abrogare il divorzio confermò che la consultazione popolare
su questioni sensibili suscita profonde lacerazioni e ferite
inguaribili negli sconfitti. Nel frattempo, dopo Einaudi, le Camere
avevano eletto i democristiani Giovanni Gronchi, considerato “di
sinistra”, e Antonio Segni, conservatore capace di grandi riforme, il
socialdemocratico Giuseppe Saragat e Giovanni Leone, democristiano,
giurista insigne, poi travolto da una sciagurata campagna diffamatoria
che logorò le istituzioni e le espose molto indebolite all'offensiva
del terrorismo politico degli anni seguenti. Ne ha scritto Tito
Lucrezio Rizzo nel bel volume “Il Capo dello Stato dalla
Monarchia alla Repubblica” (ed. Herald).
L'elezione popolare del Capo dello Stato, dunque, è divisiva e non si
addice all'Italia per una lunga serie di motivi storici, la cui
esposizione richiede ampio spazio (ci ritorneremo). Tra i molti va
ricordata in primo luogo la potenziale contrapposizione tra l'Italia
settentrionale, demograficamente ed economicamente più forte, e quella
meridionale. La provenienza regionale non è mai entrata nelle talvolta
ingarbugliate elezioni dei presidenti della Repubblica, anche perché
ogni parlamentare rappresenta non quanti l'hanno votato bensì la
nazione ed è quindi libero nelle sue decisioni ultime. Ma in caso di
elezione “popolare”?
In un Paese sempre più incline all’esasperazione dei contrasti
l'elezione diretta del capo dello Stato si configura inevitabilmente
come incentivo al duello rusticano fra due sole fazioni. Un presidente
della Repubblica eletto dalle Camere può reggere anche se prevalso con
modesto margine (fu il caso di Leone, eletto anche con aiuto
“fraterno”), ma difficilmente durerebbe se eletto a stretta maggioranza
in una votazione diretta. I perdenti non mancherebbero di denunciare
brogli (come avvenne, a ragione, nel 1946), di sentirsi mortificati per
sette anni (che non sono pochi) e di non considerarsi rappresentati dal
vincitore. La questione non è una disputa tra costituzionalisti. È
squisitamente politica e va affrontata come tale per sgomberare il
campo da equivoci ed evitare i guai ora divampanti negli Stati Uniti
d'America.
La Presidenza della
Repubblica va bene così com'è.
Va dato atto ai Costituenti di aver blindato la
figura del capo dello Stato nella maniera più pacata: copiarono quasi
parola per parola lo Statuto albertino passato dal regno di Sardegna a
quello d'Italia e durato cent'anni malgrado tante vicissitudini e
tragedie, inclusi il regicidio, la durissima prova della Grande Guerra
e l'assalto mussoliniano al governo nel 1922. Il potere supremo rimase
nelle mani di Vittorio Emanuele III che il 25 luglio 1943 se ne valse
per revocare Mussolini da capo del governo e designarne il successore.
Ora, anche secondo i sondaggi a lui più favorevoli
il 25 settembre il centrodestra si avvicinerà, ma non supererà, il 50%
dei voti validi espressi da un possibile 65% degli aventi diritto.
Nessuno dei partiti in gara viene accreditato di un consenso superiore
al 25% dei consensi, pari dunque al 16% circa del corpo elettorale.
Solo la legge elettorale presentata da Giacomo Acerbo, sottosegretario
alla presidenza del Consiglio, grado 30° della Gran Loggia d'Italia,
nel 1923 assegnò due terzi dei seggi al partito che avesse superato il
25%. Ma lì si trattava di ripartire gli scranni della Camera dei
deputati, mentre il Senato era di nomina regia e vitalizio e, a parte
alcuni esagitati senza troppe speranze, nessuno metteva in discussione
il capo dello Stato, il Re, che tale era “per grazia di Dio” e firmava
leggi e decreti “per volontà della nazione”. Il presidenzialismo è del
tutto estraneo al quadro politico-partitico italiano invalso mezzo
secolo fa, col declino della Democrazia cristiana e il suo mancato
sorpasso da parte del Partito comunista.
Che cosa potrebbe aggiungere alle prerogative del capo dello Stato la
sua elezione popolare? Ha il comando delle Forze armate, presiede il
Consiglio supremo di difesa, dichiara lo stato di guerra deliberato
dalle Camere, presiede il Consiglio superiore della magistratura, può
concedere la grazia e commutare le pene, conferisce le onorificenze
dello Stato, accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica
i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione
delle Camere, nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di
questo, i ministri e, come già detto e conviene ricordare, “rappresenta
l'unità nazionale”. Non bastasse, a differenza del Re, che era tenuto a
firmare senz'altro le leggi deliberate dal Parlamento, il presidente
della Repubblica “prima di promulgare la legge, può con messaggio
motivato alle Camere, chiedere una nuova deliberazione”. Deve
promulgarla solo in caso di nuova approvazione (art. 74 Cost.).
Proprio per la vastità dei suoi poteri è opportuno che il capo dello
Stato continui a essere eletto dalle Camere anziché dalla prevedibile
furibonda contrapposizione tra “tifoserie”, costrette, per prevalere, a
estremizzare i motivi di conflitto e a soffocare le legittime identità
e diversità all'interno di coalizioni che cesserebbero di essere
convergenza tra affini e diverrebbero unioni coatte, a tutto vantaggio
della forza maggioritaria, tentata di fagocitare gli alleati e
soffocare le minoranze interne, a tutto danno del pluralismo,
patrimonio irrinunciabile della democrazia parlamentare.
Infine, elezione diretta del Capo dello Stato vuol dire rischio del
dominio della piazza e di pulsioni umorali in un Paese che nel corso
della storia si è mostrato incline all'osanna e al crucifige e
possibile sovrapposizione del presidente della Repubblica alle altre
Istituzioni, a cominciare dalle Camere, e in definitiva,
all’abdicazione da parte degli elettori alla loro sovranità proprio
mentre votano. Anziché garantire la democrazia, cioè il pluralismo,
l'elezione diretta del capo dello Stato genera la tirannide di una
minoranza di votanti sulla maggioranza dei cittadini. L'Italia ha già
dato...La storia invita alla riflessione e alla prudenza.
La Presidenza della Repubblica sta bene così come è, non
troppo diversa dalla monarchia rappresentativa alla quale si deve la
nascita dello Stato d'Italia, sorto appena 161 anni fa: il più
“giovane” dell'Europa centro-occidentale. Forse anche per questo motivo
non suscita affatto scandalo la rielezione del Capo dello Stato, quando
risulti garante di stabilità del Paese nel quadro dei suoi vincoli
internazionali e nel rispetto dei diritti non negoziabili che sono alla
base della Costituzione vigente come erano in nuce nello Statuto
albertino.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA.
La
“Biblioteca Piffetti” trasferita da Casa Savoia da Torino al
Quirinale. Residenza dei Papi, dei quattro Re d'Italia e dei
Presidenti della Repubblica il Palazzo è sintesi e simbolo della
continuità di uno Stato ancora giovane, bisognoso di pace
interna e internazionale.