Nell'Europa
orientale, a pochi minuti di missile da noi, è in corso una guerra
feroce. Trattati, convenzioni e regole, violati per decenni in tanti
Paesi, ora sono calpestati anche nel Vecchio Continente, persino a
ridosso della città ove nacque Immanuel Kant, il filosofo della Ragion
pratica e di Per la Pace perpetua. Un “errore umano” (eventuale,
possibile, voluto) potrebbe scatenare l'inferno sulla terra, causare il
danno irreversibile per milioni di persone e spazzare via secoli di
incivilimento.
Anziché occuparsi di quanto incombe, c'è chi fa la guerriglia sui nomi
delle scuole e vorrebbe cancellare il nome del Duca Amedeo di Savoia
Aosta (Torino, 1898-Nairobi, 1941), Medaglia d'Oro al Valor Militare,
da dedicatario del Liceo Scientifico di Pistoia. Solo per distrarre? La
falsificazione della Storia esige risposte chiare. La Consulta dei
senatori del regno si oppone fermamente e invita a farlo, scrivendo al
sindaco della città e al prefetto di Pistoia.
Il vizio antico della
damnatio memoriae
Anche in Italia imperversa da anni la stolida corsa a cambiare i nomi
di strade, piazze, edifici e pubblici istituti. È una mania speculare a
quella divampata tempo addietro, quando a quelli in uso furono aggiunti
i precedenti. Un vezzo bizzarro: se venisse rispettato sino in fondo,
agli angoli delle strade dovrebbero essere collocate non le solite
targhe, spesso sbiadite, ma lapidi che rechino scolpite tutte le
diverse denominazioni succedutesi nel tempo. Così sono sempre andate le
cose nella civiltà latina, usa a intitolare le Opere ai rispettivi
promotori e/o artefici, salvo sostituirli con altri quando risultavano
“superati”. Ricordiamo, in sintesi, che già gli antichi Romani presero
a cancellare ogni ricordo dei predecessori “scomodi”. Fu un effetto del
Cesarismo. La Res publica (genus mixtum secondo Cicerone: equilibrio
tra comizi tributi, senato e consolato) aveva celebrato tutti gli
Ottimati meritevoli di gloria imperitura. Invece dai Giulio-Claudi in
poi (che dopo Augusto inanellarono Caligola e Nerone...), ogni dinastia
spazzò via la memoria del passato e pretese che la storia iniziasse con
se stessa, come facevano i Faraoni in Egitto. Dilagò la damnatio
memoriae, che non è triste invenzione recente ma rigurgito del
malcostume politico-culturale introdotto dalla tirannide. Altrettanto
avvenne nei secoli seguenti, sia per il potere civile (imperatori, re,
principi, “liberi comuni”...), sia per quello ecclesiastico. Alcuni
papi non esitarono a demonizzare e persino a processare e condannare
post mortem (presente cadavere!) il predecessore. Poiché la sapevano
lunga, i consoli romani reduci da vittorie smaglianti sul cocchio
avevano alle spalle chi li ammoniva: “guardati dal giorno della lode”.
Questa premessa non è una divagazione. Ci ricorda che nulla è nuovo
sotto il sole. Chi conquistava una terra esigeva che i vinti
dimenticassero la propria identità. Molto cristianamente, imponeva
persino il culto dei propri santi al posto di quelli venerati dalle
popolazioni soggiogate, inducendo a battezzare i neonati con nomi
usuali nella dinastia vittoriosa. Con l'avvento degli Aragonesi, nel
regno di Napoli gli Alfonso, Fernando e Ferdinando sostituirono i
Carlo, Roberto e altri nomi tipici degli spodestati Angioini. Però,
poiché i più ricorrenti nell'Europa centro-occidentale erano e rimasero
una manciata, alla stretta finale le diverse dinastie si trovarono ad
avere Carli, Filippi, Ferdinandi, Giuseppi, Franceschi, Enrichi,
Guglielmi, Giorgi e loro composti. Basti, a conferma, scorrere i nomi
dei sovrani in carica alla conflagrazione europea del luglio-agosto
1914, scatenata dall'assassinio di Francesco Ferdinando d'Asburgo,
arciduca e principe ereditario dell'impero d'Austria e del Regno di
Ungheria. Erano come salmi responsori.
L'eccezione sabauda in
Italia
A quell’epoca unica eccezione era il re d'Italia, Vittorio Emanuele
III, che aveva un nome quasi esclusivo della Casa di Savoia.
Originariamente associato ad altri nomi, come Emanuele Filiberto,
restauratore del Ducato, e Carlo Emanuele (due dei quali re), il primo
“Vittorio Emanuele” tout court (1759-1825), restauratore del regno di
Sardegna, sommò insieme il “Vittorio” di Amedeo II, duca incoronato re,
e l'“Emanuele” di “Testa di Ferro”. Il principe Carlo Alberto di Savoia
Carignano (1798-1849), suo lontano parente ed erede al al trono, ebbe
la lungimirante prontezza di far battezzare Vittorio Emanuele il
primogenito (14 marzo 1820-9 gennaio 1878): futuro re di Sardegna,
primo re d'Italia e indiscutibile Padre della Patria. Terzo di quel
nome, Vittorio Emanuele (Napoli, 11 novembre 1869-Alessandria d'Egitto,
28 dicembre 1847) fu il sovrano che regnò più a lungo in Italia (dal 29
luglio 1900 al 9 maggio 1946), ne portò i confini politici a coincidere
con quelli geografici (ad abundantiam anzi, giacché comprese anche
Fiume, Zara, ecc.) e alle colonie conquistate prima della Grande Guerra
(Eritrea e Somalia) aggiunse la Concessione di Tien-Tsin in Cina,
Libia, Rodi e Dodecanneso, oltre all'impero d'Etiopia e la corona di
Albania.
Fu vera gloria la sua? Se n'è discusso e se ne
discuterà ancora. Di sicuro il re ebbe il sostegno del Paese e per
decenni venne stimato dai capi di Stato (anche di grandi potenze come
USA, URSS, Gran Bretagna e Francia), sino alla fase agonica della
Guerra dei Trent'anni che imperversò nella prima metà del secolo scorso
(1914-1945). Dopo quasi vent'anni di regime di partito unico, approvato
dagli elettori nel 1929, 1934, 1939 e votato dalle Camere quasi
unanimi, nell'estate del 1943 in poche settimane fu lui a revocare
Benito Mussolini da capo del governo, a smantellare il Partito
nazionale fascista e ad ottenere dagli anglo-americani la resa senza
condizioni, premessa indispensabile per risalire la china, come
documenta il denso saggio 1943-1945. Dai Gruppi di Combattimento al
nuovo Esercito Italiano, curato da Pier Carlo Sommo e Alberto Turinetti
di Priero a corredo della Mostra di esemplare rigore storiografico
allestita all Cittadella di Torino lo scorso aprile.
Malgrado i suoi indiscutibili meriti, dopo anni di scaramucce (subite
in silenzio da chi avrebbe dovuto replicare subito colpo su colpo), in
tempi recenti contro la sua memoria è stata scatenata un'offensiva
volta a farne tabula rasa. Appellato, via via, Re borghese, socialista,
soldato, fascista, razzista, fuggiasco, fellone..., secondo alcuni
Vittorio Emanuele III andrebbe cancellato per sempre. Nel 2019 una
senatrice a vita della repubblica invitò i sindaci di tutta l'Italia a
eliminarne il nome da piazze, vie e istituti pubblici. Leoluca Orlando,
all'epoca sindaco di Palermo, sollecitò le scuole siciliane a dare il
buon esempio. Per scongiurare il caotico “fai da te” dominante dal
famigerato Sessantotto, il 18 febbraio 2021 il dirigente scolastico
regionale richiamò la normativa vigente sull'intitolazione di scuole,
aule e locali interni agli istituti nonché sull'erezione di monumenti e
la posa di lapidi (circolare Ministeriale 12 novembre 1980, n. 313).
Con ovvi aggiornamenti (all'epoca non esistevano i consigli d'Istituto
nei quali siedono docenti, personale amministrativo, tecnico e
ausiliario, studenti e genitori, mentre i “dirigenti”, senza diritto di
voto, fanno le belle statuine), essa ricalca la legge 23 giugno 1927,
n. 1188, emanata, vedi caso, proprio da Vittorio Emanuele III.
Il dedicatario di scuole, ecc., deve essere morto da dieci anni: un
tempo minimo per separare il grano dal loglio, vagliare il merito
durevole, senza cedere né alle emozioni né ai cambi dei sempre più
volatili “gusti” ideologici. L'intitolazione, decisione di alta
responsabilità e di portata storica, è proposta dal consiglio
d'istituto, sentito il collegio docenti, con delibera da sottoporre
all'approvazione del Provveditore agli studi dopo aver acquisito le
valutazioni vincolanti del prefetto e della Giunta comunale. Essa è
dunque un atto complesso, che unisce cultura, politica e certezza del
diritto, proprio perché, con buona pace di Luigi Einaudi, il prefetto è
quel che resta dello Stato d'Italia.
La normativa
dovrebbe dunque scongiurare intitolazioni dettate da pulsioni
estemporanee e da spiriti faziosi, estranei alla Pubblica istruzione e,
più in generale, dovrebbe concorrere alla costruzione e alla
salvaguardia della Memoria. Chi è meritevole di speciale ricordo, lo è
“a prescindere” da pregiudizi privi di consistenza, come quelli
accampati per cancellare il nome di Vittorio Emanuele III dagli
Istituti che se ne fregiano. È il caso, recentissimo, della proposta
ventilata a Napoli di sostituire il nome del sovrano con quello di
Benedetto Croce quale dedicatario della celeberrima Biblioteca
Nazionale di Napoli, arricchita nel dopoguerra dalla biblioteca della
duchessa Elena di Savoia Aosta.
A quanti accusano il Re
di collusione con il fascismo, contrapponendogli artificiosamente
Croce, va ricordato che il sommo filosofo e storico napoletano votò a
favore dell'insediamento del governo presieduto da Benito Mussolini,
così come Vittorio Emanuele Orlando, “presidente della Vittoria” ed
Enrico De Nicola, futuro presidente provvisorio della Repubblica,
entrambi nell'aprile 1924 candidati nella Lista Nazionale “fascista”,
nonché Alcide De Gasperi capogruppo dei popolari alla Camera, Giovanni
Giolitti, maggiorente dei demoliberali, e un lungo elenco di
parlamentari di varia ascrizione (democratici, demosociali,
riformisti...). A differenza di quei politici, grandi industriali,
banchieri, agrari, ecc., “monarchisti” di passo e a noleggio anziché
veramente “monarchici”, Vittorio Emanuele III ovviamente non votava.
Sovrano costituzionale, egli promulgava le leggi approvate dalle
Camere. Non aveva neppure la possibilità di rinviarle al Parlamento con
parere motivato, come è oggi facoltà del presidente della Repubblica
(il quale deve comunque “trangugiarle” se le Camere le confermano:
art.74 Cost.).
Il “caso” del Duca
d'Aosta Viceré d'Etiopia
Ora
accade che qualche insegnante del liceo scientifico “Amedeo di Savoia
Duca di Aosta” di Pistoia chieda che il nome distintivo della scuola
sia cancellato. In alternativa vengono prospettate Rita Levi
Montalcini, già senatrice a vita, e Margherita Hacks. I loro nomi sono
di prestigio assoluto e meritano l'omaggio degli italiani. Ma perché
mai mortificarli in una disputa artificiosa contro quello di Amedeo di
Savoia Aosta, Medaglia d'Oro al Valor Militare, ammirato in Italia e
all'estero per la sua capacità di conciliare senso dello Stato e
visione universale della Storia?
Non ne ripercorriamo
qui la figura e l'opera. Venne fatto il 5 giugno scorso a Bologna per
iniziativa del Nastro Azzurro presieduto da Davide Nanni, in occasione
dell'intitolazione di una rotonda al principe Luigi Amedeo di Savoia
Aosta, Duca degli Abruzzi, con partecipe intervento dell'Assessore ai
Lavori pubblici e alla toponomastica, Simone Borsari, delegato dal
sindaco Lepore, presenti il principe Aimone di Savoia Aosta, duca di
Savoia e Capo della Real Casa, e autorità civili e militari. “Amedeo
d'Aosta” (come il viceré d'Etiopia viene ricordato non per diminutio ma
per sincera ammirazione e affetto da quanti lo conobbero o ne sentirono
parlare o ne lessero), al pari di suo padre Emanuele Filiberto fu
Artigliere a Venaria Reale: quella era infatti l'“arma dotta”, di
avanguardia. Lì lo volle Vittorio Emanuele III, perché, memore della
legge salica e dei novecento anni della Casa, riteneva che i “cugini”
Savoia Aosta fossero la riserva aurea della Monarchia. I governi
passano, lo Stato rimane. Di vocazione “marinaio”, Amedeo d'Aosta fu
Artigliere (lo ha ricordato l'Associazione Nazionale Artiglieri
d'Italia a Venaria Reale il 18-19 giugno con i generali Pierluigi Genta
e Luigi Cinaglia, promotore della suggestiva Mostra “Strappi,
tra
violenza e indifferenza”, completa di catalogo) e pilota nella nascente
aeronautica, “proiezione” della cavalleria sin dalla Grande Guerra.
Militare come tutti i principi della Casa Savoia Carignano, nipote
dell'omonimo Aosta per breve tempo re di Spagna (1870-1873), da
generale di aviazione di stanza a Gorizia e dimora nell'infausto
Castello di Miramare a Trieste, nel 1937 Amedeo venne nominato viceré
d'Etiopia per rimediare ai guai del predecessore, Rodolfo Graziani. Si
era laureato molti anni prima a Palermo con una tesi proprio sui
“Rapporti giuridici fra gli Stati moderni e le popolazioni indigene
delle loro colonie”, da lui conosciuti e studiati sulle orme dello zio
Luigi Amedeo.
Fu egli “fascista”? Fu “governativo”,
come erano e dovevano essere i principi della Casa, i militari e tutti
i pubblici impiegati entrati come lui “in servizio” prima
dell'imposizione del giuramento aggiuntivo di fedeltà al “regime”. Dopo
il quale Benedetto Croce consigliò che era meglio prestare quel tributo
“formale” piuttosto che essere sostituiti da manutengoli del fascismo.
Quando venne chiesto il dono dell'“oro alla Patria” anche il filosofo
fece la sua parte. Perché così sono i Patrioti, sull'esempio degli
Inglesi per i quali, sia nel diritto o no, la Patria è “il mio Paese”.
Essi hanno alle spalle la guerra delle Due Rose, la decapitazione di
Maria Stuarda e di Carlo I, il lord protettore Cromwell, la cacciata
dell'ultimo Stuart, la ricerca di un sovrano “di passo”, debitamente
domesticato. E anche un po' di venturieri come Drake, Raleigh e ugole
d'oro elevate a baronetti perché “pecunia non olet”. Rappresentano la
continuità della storia, incarnata nella monarchia.
Patriam recuperare
Stato ancora giovane, con tanti, troppi, nostalgici di fiabe
pre-unitarie, l'Italia odierna ha bisogno di tutto tranne che di
cancellare la memoria storica della propria identità, che risale ai
Latini, ai Cesari, agli Illuministi, ai patrioti del Risorgimento e ai
Savoia re d'Italia. Lo ha insegnato proprio il Presidente Sergio
Mattarella che nel dicembre 2017 propiziò la traslazione delle salme di
Vittorio Emanuele III e della Regina Elena da Alessandria d'Egitto e da
Montpellier al Santuario di Vicoforte, nel Vecchio Piemonte, “per
ricomporre la memoria storica”, come scrisse la Principessa Maria
Gabriella di Savoia di concerto con la Consulta dei senatori del regno.
Per stare in Europa e nel mondo attuale e venturo, quello delle massime
potenze continentali (la tetragona ma declinante Federazione Russa e
soprattutto la Repubblica popolare cinese, mentre gli Usa sono sulla
soglia della deflagrazione) l'Italia deve mettere tra parentesi le
fazioni e riscoprire la propria identità. Dopo i quattro re
susseguitisi dal 1861 al 1946, nei successivi 74 anni essa contò
quattordici elezioni di presidenti della Repubblica, non tutti
saldamente presenti nel ricordo dei cittadini.
Cancellare il
nome di una Medaglia d'Oro al valor Militare da insegna di un Liceo è
quanto di peggio si potrebbe fare in un Paese che ha urgenza di
riscoprire storia, valori, motivazioni civili. Per fermare la corsa
verso l'oblio della storia vera bisogna confidare in un guizzo di
orgoglio civile di cittadini, docenti, insegnanti e allievi e, come la
la Consulta dei senatori del regno, sollecitare il parere negativo
vincolante del sindaco di Pistoia, Alessandro Tomasi, sorretto da
Fratelli d'Italia, Forza Italia, Lega e affini, e del Prefetto di
Pistoia, dott.ssa Licia Donatella Messina, cioè dello Stato d'Italia,
che non è nato con il referendum del 2-3 giugno 1946 ma dal
Risorgimento.
Aldo A. Mola
S.A.R.
il Principe Aimone di Savoia Aosta, Capo della Real Casa di Savoia,
ospite della Federazione del Nastro Azzurro a Bologna (5 giugno 2022)
per l’intitolazione della Rotonda al principe Luigi Amedeo di Savoia
Aosta e per la rievocazione del Viceré d'Etiopia, Amedeo di Savoia, III
Duca d'Aosta. Alla sua destra lo Mariano Torre, autore di un robusti
saggi storici, e il relatore, presidente della Consulta; alla sua
sinistra Andrea Spettoli, presidente del Club Reale Italiano di Bologna.
Su Amedeo d'Aosta, viceré d'Etiopia, oltre a Gigi Sperone I Savoia
scomodi. La saga degli Aosta (Bompiani 2003), segnaliamo il volume di
Giuseppe Catenacci, Presidente della Associazione Nazionale ex Allievi
della Nunziatella, Amedeo d'Aosta e la Nunziatella (1993), che pubblica
la motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare: “Comandante
Superiore delle Forze Armate dell'Africa Orientale Italiana, durante
undici mesi di asperrima lotta, isolato dalla Madre Patria, circondato
da un nemico soverchiante per mezzi e per forze, confermava la sua
sperimentata capacità di condottiero sagace ed eroico (...)”. “Fedele
continuatore delle tradizioni guerriere della stirpe Sabauda”, quando
rimase “assediato nel ristretto ridotto dell'Amba Alagi alla testa di
una schiera di prodi, resisteva oltre i limiti delle umane possibilità,
in un titanico sforzo che si imponeva all'ammirazione dello stesso
nemico”. Alla inevitabile resa, gli inglesi gli tributarono l'onore
delle armi, come documenta Dino Ramella in Il Duca d'Aosta e gli
Italiani in Africa Orientale (ed. Torino, Daniela Piazza, 2017). Su di
lui v. anche Federica Saini Fasanotti, Etiopia 1936-1940. Le operazioni
di polizia coloniale nelle fonti dell'Esercito Italiano, Ufficio
Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito,
2010.