FARE LO
STATO: VITTORIO EMANUELE II (1861-1878)
Editoriale di Aldo A. Mola di domenica 8 settembre
2024
Il re e i suoi ministri: Cavour,
Casati, Rattazzi...
La storiografia è stata ingenerosa nei confronti
di Vittorio Emanuele II. È comprensibile. Il primo
re d’Italia si attirò l’odio inestinguibile dei
laudatores degli Stati preunitari, soprattutto i
borbonici, dei papisti, dei tardofederalisti, dei
veteromazziniani, dei proto e postsocialisti e poi
di quanti, passeggiando nei corridoi di
biblioteche e di chiostri, spiegarono che, loro
sì, avrebbero fatto l’Italia meglio di quanto
seppero farla “Monsù Savoia” e i suoi generali e
ministri, rudi e buzzurri.
Si dimentica o viene lasciato sotto
traccia che per unire l'Italia Vittorio Emanuele
II gettò tutto sul tavolo della storia. Il
colloquio di Plombières tra Cavour e Napoleone III
il 20-21 luglio 1858 fu importante, ma va
ricordato che esso prese corpo solo con la firma
del trattato di alleanza tra regno di Sardegna e
impero di Francia sottoscritto a Torino il 26
gennaio 1859 dal principe Gerolamo Napoleone,
suggellato dalle nozze tra l'ultimogenita del Re,
Clotilde, e il napoleonico “Plon-Plon”. Va
aggiunto che sin dalla genesi dell'alleanza il re
accettò di cedere alla Francia non solo la contea
di Nizza ma anche la sua originaria Savoia: un
sacrificio che non era solo di chilometri quadrati
ma nelle scelte di quanti dovettero optare tra
nuova cittadinanza e memoria di secoli di storia.
Riconoscere la centralità del
re non comporta alcuna sottovalutazione del ruolo
svolto da Cavour, che rimase il suo punto di
riferimento. Significa però constatare che re
Vittorio fu sempre il garante personale della
continuità dello Stato in un’epoca nella quale era
normale che i ministri cambiassero mentre le
decisioni supreme spettavano a imperatori e re. Fu
Vittorio Emanuele, non Cavour, a capire che il
regno di Sardegna non poteva continuare da solo la
guerra contro l’Austria e a sottoscrivere “per
quello che lo riguardava” l’armistizio di
Villafranca (11 luglio 1859) deciso da Napoleone
III e Francesco Giuseppe. Con quella adesione non
tradì la causa, l’unificazione italiana, che non
rientrava negli obiettivi immediati di nessuno dei
suoi ministri, a cominciare da Cavour, ma ne
consolidò le premesse, conscio che il Regno di
Sardegna doveva muoversi negli spazi via via
permessi dal concerto europeo. Ogni spostamento di
confini esigeva il consenso delle potenze e non
doveva generare “rivoluzioni”.
Nel piccolo e ancora informe regno
sardo-lombardo il governo La Marmora-Rattazzi in
pochi mesi varò leggi poi estese a quello d’Italia
e rimaste in vigore per molti decenni, come la
riforma della scuola di Gabrio Casati e quella di
comuni e province dovuta a Urbano Rattazzi. Il re
fu il cardine della politica estera imperniata su
rapporti personali. Non esitò a valersi anche di
reti cospirative. I commissari e i dittatori nei
ducati padani e nel granducato di Toscana godevano
della fiducia del sovrano. “Italia e Vittorio
Emanuele” era l’insegna della Società Nazionale di
Daniele Manin, Giorgio Pallavicino Trivulzio,
Giuseppe La Farina e soprattutto di Giuseppe
Garibaldi, che, generale dal 1859, sbarcato in
Sicilia, a Salemi si proclamò dittatore in suo
nome.
Perché “II”?
Vittorio Emanuele deluse Francesco Crispi e i
tanti che alla proclamazione del regno volevano
che mutasse l’ordinale Secondo in Primo perché re
della Nuova Italia. Avevano le loro ragioni. Il
cambio comportava una cesura. Avrebbe conferito al
Parlamento un ruolo costituente, almeno per
evidenziare un “prima” e un “poi”. Voleva anche
far intendere che il re non aveva fatto tutto da
solo. Ma anche la continuità aveva i suoi fautori,
e prevalse. La legge istitutiva del regno fu un
capolavoro di equilibrismo: «Il Re Vittorio
Emanuele II assume per sé e suoi successori il
titolo di Re d’Italia» (14 marzo 1861). Il sovrano
divenne Re del Paese che possedeva e rimase tale
«per grazia di Dio», a norma dello Statuto, legge
«fondamentale, perpetua ed irrevocabile della
monarchia». Per la legge 17 aprile 1861 Vittorio
Emanuele II firmò leggi e decreti come «Re per
grazia di Dio e volontà della nazione Re
d’Italia». L'evocazione della nazione fu l'atteso
riconoscimento del concorso dei “popoli d'Italia”
alla realizzazione dell'impresa che fino alla sua
vigilia sembrava impossibile. Per la prima volta
nella storia, inclusa quella “augustea” che non
comprese le tre grandi isole, l'Italia era uno
Stato unitario, indipendente, sovrano.
Riconosciuta anche dall'Impero austro-ungarico,
suo nemico storico, nella conferenza diplomatica
di Londra (1867) essa sedette a pieno titolo nella
Comunità internazionale.
Per ascendere a re d’Italia Vittorio
Emanuele debellò sovrani e annesse terre dello
Stato pontificio: le Legazioni dell’Emilia Romagna
prima, Marche e Umbria poi (“fate, ma fate in
fretta” suggerì Napoleone III agli emissari di re
Vittorio, che lo informarono dell'imminente
invasione). Il conflitto però non rimase
circoscritto alla sfera del potere temporale.
Investì il primato della chiesa nella vita
pubblica. Da scontro con il papa-re divenne
contesa con il Pontefice. Vittorio Emanuele II era
e fu sempre figlio devoto della chiesa, ma non
poté impedire che il governo imboccasse la strada
della secolarizzazione della società. Sin dalle
leggi Siccardi il sovrano entrò in conflitto con
Pio IX, che rispose con le armi in suo possesso:
non esitò a scomunicare il re, i suoi ministri e
l'intera dirigenza statuale.
Malgrado l'interdetto pontificio, il
re ora assecondò ora non ostacolò l’azione di
quanti mirarono a risolvere la questione romana in
maniera sbrigativa: lasciando briglia sciolta,
almeno in primo tempo e troppo a lungo, a
iniziative militari. Fu il caso dei governi
presieduti da Urbano Rattazzi nel 1862 e nel 1867.
In entrambi i casi Garibaldi organizzò spedizioni
militari nella convinzione di avere il tacito
avallo del sovrano e l'assenso del governo. Nel
1862 dallo sbarco a Palermo al suo passaggio in
Calabria trascorsero settimane, durante le quali
il generale proclamò in tutti i modi il suo
proposito: «Roma o morte.» Moltiplicò logge
massoniche per iniziarvi i suoi seguaci. Il
drammatico scontro sull’Aspromonte nacque
dall’ambiguità e dall’illusione di porre ancora
una volta l’Europa dinnanzi al “fatto compiuto”.
Altrettanto avvenne nel 1867, con il tragico
epilogo di Mentana. Entrambe le volte il governo
dovette procedere all’arresto del generale
rischiando di compromettere l’immagine di Vittorio
Emanuele II sia dinnanzi ai democratici, sia agli
occhi dei governi esteri, indotti a considerare
l’Italia causa permanente di crisi anziché
garanzia di stabilità: l’opposto di quanto ci si
era attesi dal riconoscimento del regno.
All'indomani della sconfitta di Napoleone III a
Sedan da parte dei prussiani di Bismarck (2
settembre 1870) il governo Lanza-Sella ordinò
l’assalto e l’espugnazione di Roma proprio per
scongiurare il peggio: un’insorgenza di
garibaldini o, peggio, di mazziniani, che avrebbe
causato l’intervento militare internazionale come
nel 1849. Anziché coronamento dell’unità Roma
rischiava di fare da detonatore di un ventennio di
contraddizioni. Perciò il governo s’affrettò a
farvi celebrare il plebiscito che ne avallò
l’annessione alla corona sabauda.
Da quel momento Vittorio Emanuele II
si trovò più alto e più solo.
Le aperture “a sinistra” e il ricordo di Isacco
Artom
Il crollo di Napoleone III e l’avvento della Terza
Repubblica francese generò nuove ansie. L’Italia
aveva bisogno di sicurezza sul debolissimo confine
con l’Impero d’Austria. La Triplice alleanza
difensiva con Berlino e Vienna fu stipulata nel
1882, un anno dopo l’imposizione francese del
protettorato sulla Tunisia. Essa era però “in
nuce” sin dal 1870, quando la proclamazione della
Terza repubblica Oltralpe alimentò le speranze al
di qua e in tanti ripresero a cospirare contro la
monarchia. Ancora una volta il re mise in gioco la
Casa. Il secondogenito, Amedeo duca d’Aosta, già
preconizzato re di Grecia, accettò la corona di
Spagna a conclusione di una complessa trama
condotta in porto anche grazie alle relazioni
segrete dirette tra il sovrano e politici eminenti
quali il generale Prim, àuspici alti dignitari
massonici. Il regno di “don Amadeo Primero” durò
poco più di un anno. Fu però sufficiente a
mostrare che i Savoia si accollavano
responsabilità per la conservazione della pace
europea. Maria Pia, una delle figlie di Vittorio
Emanuele II, era regina del Portogallo. Nel
1873-75 Vittorio Emanuele II compì visite di Stato
a Vienna e a Berlino e ne venne ricambiato.
Morto Giuseppe Mazzini (1872), la
Sinistra storica si separò nettamente dai
repubblicani, le cui speranze di riscossa si
affidavano a crisi interne gravissime che nessun
patriota si augurava. Dal 1867 autorevoli
esponenti della Sinistra, come Agostino Depretis e
Michele Coppino, entrambi massoni, avevano fatto
parte del governo. Con l’avanzata nelle elezioni
del 1874 la Sinistra risultò candidata a guidare
il Paese. Le guerre per l’unità e l’indipendenza
erano definitivamente alle spalle. Mai dimentico
di Trento e di Trieste, anche Garibaldi, l’antico
condottiero della Rivoluzione, dedicava le residue
energie a trasformare Roma in città moderna:
argini del Tevere, un porto commerciale, un’ampia
area industrializzata... Nel 1875 andò in visita
al Re, che lo accolse al Quirinale avendo a fianco
il generale Giacomo Medici, l’eroe del Vascello.
Alla caduta del governo
Minghetti-Visconti Venosta (18 marzo 1876)
Vittorio Emanuele non esitò a conferire la
presidenza del consiglio a Depretis. Lo storico
Walter Maturi ha scritto che quello fu il suo
“ultimo grande atto politico”. Il re provò che il
Risorgimento era compiuto e la Nuova Italia era
unita attorno alla Corona, per la realizzazione
della “missione” che Quintino Lanza aveva
enunciato dall'annessione di Roma: il trionfo
della Scienza. Nel 1877 la Sinistra riorganizzò le
proprie file: fissò i termini entro i quali
dovevano contenersi le tenzoni parlamentari. Le
possibili crisi di governo non avrebbero più
investito le istituzioni.
Il ricordo più commosso e penetrante
del “padre della patria” venne confidato da Isacco
Artom, antico segretario di Camillo Cavour, al
massone Beniamino Manzone, un professore
originario di Bra, nel Cuneese, chiamato a Roma
nel 1895 per fondare e dirigere una rivista
storica del Risorgimento italiano nell’imminenza
del quarto di secolo da Porta Pia. Il Venti
Settembre 1895 vennero scoperti al Gianicolo il
monumento di Giuseppe Garibaldi a cavallo e in
piazza Cavour quello dello statista torinese.
Artom ricordò a Manzone che le relazioni tra re
Vittorio e Cavour “pur troppo” non sempre erano
state cordiali, ma il re non esitò mai a fare il
primo passo per riconciliarsi, anche al prezzo
delle “sue simpatie personali”. Aveva quell’alto
senso dello Stato che troppo a lungo la
storiografia ha sottaciuto. «La morte del Conte
troncò pur troppo prematuramente quella
provvidenziale collaborazione d’un grande Sovrano
e d’un grande uomo di Stato, spettacolo così raro
nella storia delle nazioni […]. Morto Cavour, Re
Vittorio rimase la sola incarnazione dell’unità
italiana. È giusto proclamarlo altamente […] Egli
non esitò mai a compiere arditamente la sua grande
missione storica. Ricordo un’udienza che egli mi
accordò al mio ritorno dalla Danimarca, dove ero
stato suo inviato. Era l’epoca infelicissima
seguita a Mentana. Mi accolse con grande
affabilità. Nel cuor dell’estate, dall’aperta
camicia, si scorgeva il suo fulvo petto leonino.
Mi strinse con forza la mano e mi congedò
dicendomi: Non dubitate, fra breve saremo a
Roma!.»
Mantenne la parola e suo figlio
Umberto I proclamò Roma “conquista intangibile”.
Per cementare l'unità nazionale: le
“nobilitazioni”
Per cementare l'unità nazionale il re si valse
dell'opera del “suo” governo e delle Camere, che
per statuto compartecipavano alla legiferazione.
In pochi anni i governi presieduti da Agostino
Depretis, Benedetto Cairoli e Francesco Crispi
compirono miracoli. Ancora vivente re Vittorio,
Michele Coppino ottenne la scuola obbligatoria e
gratuita. Il suo successore all'Istruzione,
Francesco De Sanctis, impose l'edificazione di
scuole e palestre e l'educazione fisica femminile.
Le condizioni degli insegnanti, come di tutti i
pubblici impiegati, vennero migliorate. La rete
ferroviaria ebbe nuovo impulso. Dopo la devastante
epidemia di colera (1867) furono gettate le basi
della prima legge sanitaria del regno voluta da
Crispi e da Luigi Pagliani, nativo di Genola
(Cuneo), che istituì i medici e i veterinari
condotti.
Re Vittorio colse il desiderio
profondo di “riconoscimento” dei cittadini che si
mobilitavano a sostegno dello Stato Nuovo.
Riordinò pertanto gli ordini cavallereschi: quello
della Corona d'Italia, meramente civile, suddiviso
in cinque classi (cavaliere, cavaliere ufficiale,
commendatore, grand'ufficiale, gran croce), quello
Militare e quello religioso-cavalleresco della
Casa, l'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, con
identico impianto. Tutto era stato previsto dal Re
Magnanimo. Lo Statuto albertino sancì «Il Re può
creare altri ordini e prescriverne gli statuti» e
conferire altresì «nuovi titoli di nobiltà» (artt.
78-79). Poiché la Nuova Italia non riconobbe le
onorificenze attribuite dai sovrani
preunitari, le nuove “ordinazioni” si susseguirono
a ritmo serrato a beneficio di magistrati,
ufficiali, sindaci, presidenti di consigli
provinciali, notabili, imprenditori di successo,
segnalati dalla catena ministeri-prefetti.
Particolarmente sollecito fu
l'adeguamento del Regio Senato ad assemblea
propriamente nazionale. Dal febbraio 1860 si
susseguirono imponenti “infornate” di nuovi patres
che, a giudizio unanime, immisero nella Camera
Alta gli esponenti più autorevoli del patriottismo
degli Stati preunitari. Tra i Lombardi ed emiliani
figurarono Giorgio Pallavicino Trivulzio e
Manfredo Fanti. Fra i toscani spiccarono Gino
Capponi, Raffaello Lambruschini, Cosimo Ridolfi.
L'arabista Michele Amari aprì l'infornata di 56
senatori dell'Italia meridionale, seguito da
Ruggero Settimo e Benedetto Paternò Castello di
San Giuliano. Altrettanto avvenne con l'annessione
del Veneto e di Roma. Nominati senatori Giuseppe
Verdi, Aleardo Aleardi, artisti e scienziati, Re
Vittorio conferì il laticlavio ad antichi
cospiratori del 1821, come Giambattista Michelini,
al garibaldino Vincenzo Sprovieri e al poeta
Giovanni Prati.
Ma vi fu un terreno sul quale Re
Vittorio si mosse con libertà di scelta e
singolare lungimiranza: il conferimento dei
Collari di Cavalieri della Santissima Annunziata
(classe unica), comportante il rango di “cugino
del re”. Mentre Carlo Alberto ne aveva insignito
esclusivamente cattolici, il 13 luglio 1849 suo
figlio conferì il primo Collare a Luigi Napoleone
Bonaparte, il presidente della Repubblica
francese, che, carbonaro e cospiratore da giovane,
aveva appena annientato la Repubblica Romana di
Giuseppe Mazzini, Armellini e Saffi, difesa
dall'indomito Garibaldi. Ne fregiò poi i re di
Spagna e Portogallo, principi luterani, Gerolamo
Bonaparte, già re di Westfalia e massone, e vari
granduchi di Russia, ortodossi. Tra i regnicoli
spiccarono Cavour e il fedelissimo Salvatore Pes
di Villamarina. La vera svolta giunse il 24
settembre 1861, quando, da poco proclamato re
d'Italia, conferì il Collare all'imperatore di
Turchia, cui seguirono lo scià di Persia e il bey
di Tunisi, sino al kedivé d'Egitto, Ismail Pacha:
tutti islamici. Il riferimento al culto della
Santissima Annunziata cedette il passo alla
valenza politica del rango di “cugino del re”. Il
sovrano era lo Stato. Da Roma, come già il papa,
anche il re guardò al mondo. L'Italia aveva
interessi prioritari: il Mediterraneo
centro-orientale, la rotta da Suez alle Indie e
oltre, il Medio Oriente… Dopo un anno di regno,
Umberto I allargò il compasso. Creò “cugino”
Motsu-Hito, imperatore del Giappone. L'Italia
stava fronteggiando il rilancio della sericoltura
dopo anni disastrosi. Ancora priva di colonie e di
“basi”, a differenza degli altri Stati europei,
inclusi i Paesi Bassi, aveva urgenza di ottenere
protezione per le proprie navi. Nata da poco,
quell'Italia giù guardava lontano.
Aldo A. Mola
La salma del re. Al Pantheon o al Campidoglio?
Il 9 gennaio 1878 Vittorio Emanuele II morì dopo
breve malattia polmonare. Aldo G. Ricci ha
ricostruito fedelmente la missione svolta da don
Valerio Anzino per amministrargli il viatico della
buona morte, malgrado gli intralci frapposti da
alcuni ecclesiastici rigoristi e interferenze
dell'archiatra di corte. Nessuno era pronto al
drammatico evento. Il re si congedò dal figlio
commettendogli il “brut fardèl” della Corona.
Iniziò una breve, serrata disputa sulla
destinazione della salma. Quando il 15 gennaio si
seppe che il governo intendeva collocarla al
Pantheon, come documenta Alessandro Liviero
nell'imponente “Le origini della Guardia d'Onore
alle Reali Tombe del Pantheon, 1859-1878”
(BastogiLibri, 2024), dal Piemonte i fautori di
Superga levarono proteste sdegnate.
Altri, sempre da Torino, respinsero
duramente la scelta. La “Gazzetta del Popolo”,
diretta da Giovanni Battista Bottero, scrisse che
il Panteon (sic!) è il tempio eretto agli dei
dell'Olimpo da un generale predatore (Menenio
Agrippa) favorito di Augusto e «sequestrato a
favore della vergine dal governo dei papi»: un
luogo umido, esposto alle esondazioni del Tevere,
ristretto e inadatto a manifestazioni solenni. Se
proprio Roma doveva conservare le spoglie del Gran
Re, meglio allora il Campidoglio e se non si
poteva toccare la piazza michelangiolesca, a
peggio andare bisognava ripiegare sull'Ara Coeli,
una “nuova Superga” per i Re d'Italia. L'autore
non aggiunse che quel tempio era in dotazione dei
francescani, l'ordine di fra' Giacomo da Poirino
che, avendo assistito Camillo Cavour morente, era
stato chiamato a rapporto da Pio IX e duramente
sanzionato.
“Fare l'Italia” era un'impresa ancora
ardua. Ma le manifestazioni di cordoglio per la
morte del Re Galantuomo provarono che lo Stato era
sulla buona strada.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: La Città di Roma accoglie Vittorio
Emanuele II il 27 novembre 1871 per
l'inaugurazione della sessione parlamentare.
La Città Eterna è raffigurata
come matrona, con stola di ermellino, veste
rossa e mantello azzurro: i colori solitamente
usati per la Madonna. A capo scoperto e il petto
onusto di placche e medaglie il Re fa il segno
di giuramento-riconoscimento tipicamente
massonico.