Editoriale di Aldo
A. Mola pubblicato su "Il Giornale del Piemonte
e della Liguria" di domenica 14 gennaio 2024
La lunga via della resa
Alle 11 del 3 settembre 1943 il capo del governo
Pietro Badoglio autorizzò il generale Giuseppe
Castellano a firmare alle 17 “l'accettazione delle
condizioni d'armistizio”. Come il generale scrisse
il 15 dicembre nella relazione all'“ispettore
generale dell'Esercito” (la si legge nel vol. X
della IX serie dei Documenti Diplomatici Italiani,
DDI), nelle ore seguenti si svolse al Fairfield
anglo-americano presso Cassibile «la prima
riunione di carattere militare» presieduta dal
generale Harold Alexander. Durò tutta la notte. Il
generale statunitense Walter Bedell Smith, che
aveva firmato per conto di Dwight Eisenhower,
dette «in visione» a Castellano le «clausole
aggiuntive alle condizioni di armistizio, di
carattere militare, politico ed economico»,
redatte ancor prima dell'incontro di Lisbona del
19 agosto. Su un biglietto allegato al documento
gli confermò che ad esse doveva estendersi
«l’effetto della Carta di Quebec»: l'Italia
avrebbe ottenuto un miglioramento delle durissime
condizioni di resa (surrender) in misura del suo
apporto alla lotta contro la Germania. Castellano
ne fu rinfrancato, ma, trattenuto in Sicilia, non
poté informarne il governo. Due giorni dopo il
maggiore Luigi Marchesi, presente alla firma della
resa, volò a Roma con lo scottante testo delle
“clausole aggiuntive” e il biglietto di Smith. In
una lettera per Ambrosio, Castellano precisò di
non conoscere la data e il luogo dello «sbarco
principale» programmato dagli anglo-americani ma
di presumere che avrebbe avuto luogo «intorno al
12». Lo scenario prospettato nelle conversazioni
tra lui e gli anglo-americani era però del tutto
diverso da quanto effettivamente programmato dagli
Alleati. Molto prima di arrivare alla firma, gli
italiani avevano chiesto che in coincidenza con
l'“armistizio” essi sbarcassero quindici divisioni
molto a nord di Roma, per costringere i tedeschi a
rapida ritirata dal Mezzogiorno. Gli alleati
risposero che se fossero sbarcati con quella forza
non avrebbero avuto motivo di concedere la resa:
avrebbero occupato e debellato l'Italia,
privandola di ogni riconoscimento. Tra il 4 e il 5
settembre gli anglo-americani ventilarono a
Castellano l'aviolancio di una divisione di
paracadutisti negli aeroporti di Cerveteri e di
Furbara, a nord di Roma. Chiesero anche
informazioni sulla navigabilità del Tevere per
portare artiglierie e mezzi corazzati a tutela
della capitale. Per accertarsi che tutto fosse
predisposto il generale Maxwell Taylor si sarebbe
recato in incognito a Roma.
Mentre Castellano colloquiava con gli
Alleati «su un’infinità di questioni» (propaganda,
guerriglia, politica, impiego della flotta)
Vittorio Emanuele III e Badoglio miravano a
scongiurare che filtrasse qualunque indizio della
resa. I tedeschi, che dal 6 agosto chiedevano al
ministro degli Esteri Raffaele Guariglia
informazioni sulla sorte di Mussolini, dal 24
agosto sospettavano che gli italiani avessero
avviato trattative a Lisbona. A loro volta furono
sospettati di aver ordito un complotto per
rovesciare Badoglio, se non tramite la Wehrmacht
per mezzo delle SS, uno “Stato nello Stato”. In
quei frangenti Badoglio ordinò l'arresto del
maresciallo Ugo Cavallero, senatore del regno,
rilasciato per intervento del Re, e di Ettore
Muti, ucciso durante la traduzione in carcere.
Il 19 agosto a Lisbona Smith aveva
spiegato “con cura” a Castellano che il loro
“colloquio” aveva per tema la capitolazione
militare, non un accordo per la partecipazione
dell'Italia nella guerra con gli alleati. Aggiunse
che il Re avrebbe potuto sottrarsi alla possibile
cattura lasciando l'Italia «su una nave da guerra
italiana» e che senza dubbio sarebbe stato
necessario «un governo militare alleato su parte
del territorio italiano». Il 30 agosto, poco prima
che Castellano volasse a Termini Imerese per
iniziare il triduo preparatorio alla resa,
Badoglio gli dette le ultime istruzioni per
ottenere lo sbarco delle famose quindici divisioni
«tra Civitavecchia e Spezia» e la protezione del
Vaticano. Precisò che sarebbero rimasti a Roma il
Re, la Regina, il principe ereditario, il governo
e il corpo diplomatico e chiese di «sapere l'epoca
pressapoco allo scopo di prepararsi».
Le delusioni dei vinti
A resa firmata Badoglio non ebbe
risposta a nessuna delle sue domande. Rimase nella
convinzione che tra la firma e il suo annuncio
sarebbero trascorsi almeno dieci giorni, se non le
due settimane ripetutamente sollecitate. Il 31
agosto Smith aveva proposto a Castellano che
Vittorio Emanuele III si trasferisse su una nave
italiana a Palermo. Gli Alleati l'avrebbero
evacuata. Lì quindi poteva essere stabilita «una
certa misura di sovranità italiana». Però l'isola
era ormai sotto il pieno controllo
anglo-americano; pertanto agli occhi del mondo
sarebbe risultato che il Re cercava rifugio sotto
l'ala del vincitore. Alternando toni ruvidi a
quelli concilianti, Smith aggiunse che gli Alleati
avrebbero comunque ignorato la pretesa unilaterale
del governo italiano di considerare Roma “città
aperta”. Benché cattolico, precisò che sarebbe
stata bombardata «a seconda della situazione».
Badoglio predispose pertanto il trasferimento dei
Reali in Sardegna. Scartato per molti motivi
l'impiego dell'aereo, ipotizzò il viaggio in nave
da Civitavecchia. Sennonché la città fu occupata
dai tedeschi, che ormai dilagavano ovunque da
padroni, indifferenti alle proteste del comando
supremo e dei comandanti locali.
“Sic stantibus rebus” Badoglio
percepì che gli anglo-americani non sarebbero
giunti in forze sulla linea Livorno-Rimini dove,
sia con la Dichiarazione di Quebec sia nei
colloqui successivi, avevano fatto intendere di
voler arrivare, oltre che a ridosso di Roma per
metterla al sicuro dalla minaccia germanica.
Perciò non dette credito alla missione di Maxwell
Taylor che la sera del 7 settembre si presentò a
Roma con il colonnello William Gardiner per
verificare la fattibilità dell'aviolancio di
paracadutisti alleati: una quota irrilevante
rispetto alle forze tedesche attestate attorno
alla città. Gli italiani avevano sopravvalutato
gli Alleati; e questi a loro volta
sopravvalutavano la reattività degli italiani
contro i germanici. In assenza di ormai
improbabili aiuti anglo-americani una battaglia in
Roma si sarebbe risolta in una catastrofe per la
Città Eterna, che racchiudeva al suo interno lo
Stato della Città del Vaticano.
La situazione fu sul punto di
sfuggire completamente di mano.
Alle 2 dell'8 settembre Badoglio
scrisse ad Eisenhower che « dati cambiamenti e
precipitare situazione esistenza forze tedesche in
zona di Roma non è più possibile accettare
l'armistizio immediato (DDI) ». Alle 11.30 il
comandante delle forze anglo-americane, da Algeri
(in realtà era a Biserta) rispose che avrebbe
svergognato l'Italia agli occhi del modo
pubblicando «full records of this affair». E
aggiunse lapidario: «Today is X day, and I expect
you to do your part». Se Badoglio si fosse tirato
indietro – egli intimò – sarebbe stata la fine per
il governo e per l'Italia. Era anche pronto a
ordinare un massiccio bombardamento su Roma.
Alle 18:25 il segretario generale
agli Esteri informò il ministro Raffaele Guariglia
che la radio di New York aveva comunicato che
l'Italia aveva firmato l'armistizio e che tutte le
truppe italiane avevano deposto le armi. In quei
minuti era in corso un consulto (erroneamente
narrato come “Consiglio della Corona”, organo mai
esistito) tra Badoglio, Ambrosio, Guariglia, il
generale Carboni, i ministri militari, quello
della Real Casa duca d'Acquarone, l'aiutante di
campo del Re Paolo Puntoni, il maggiore Marchesi,
bene informato sull'orientamento degli Alleati, e
il sovrano in persona. Carboni propose di
sconfessare la resa e di continuare la guerra a
fianco della Germania. Ottenne consensi. Fu il
maggiore Marchesi a ricondurre alla ragione.
Informò che gli Alleati avevano fotografato e
filmato la firma di Cassibile e quindi l'Italia
avrebbe perso ogni credibilità. Il Re decise che
la resa andava annunciata. Alle 19:30 Badoglio
comunicò ad Eisenhower che «la proclamazione
[della resa] avrebbe avuto luogo come richiesto
anche senza il vostro messaggio [intimidatorio,
NdA], essendo per noi sufficiente l'impegno
preso». Un'ora dopo l'Eiar emanò l'annuncio
dell'“armistizio” per bocca di Badoglio e lo
ripeté più volte. Alle 20:20 il maresciallo
indirizzò a Hitler una lunga informativa che così
concludeva: «Non si può esigere da un popolo di
continuare a combattere quando qualsiasi legittima
speranza, non dico di vittoria, ma financo di
difesa si è esaurita. L'Italia ad evitare la sua
totale rovina è pertanto obbligata a rivolgere al
nemico una richiesta di armistizio.» Da tempo in
sospetto ma sino a poche ore prima rassicurati che
l'Italia avrebbe continuato la guerra al loro
fianco, i comandi tedeschi in Italia vennero colti
di sorpresa e non furono in grado di assumere
subito una linea di condotta.
Invece in poche ore Badoglio
organizzò il trasferimento dei Reali, del principe
ereditario, di Ambrosio, di alcuni ministri (il Re
riteneva che fossero tutti avvertiti: farlo non
era compito suo) e del loro seguito da Roma alla
volta di Pescara. Dal ministero della Guerra, più
sicuro rispetto al Quirinale, alle 5:10 del
mattino del 9 la Fiat 2800 del Re uscì dal Palazzo
e imboccò la via Tiburtina in direzione di
Pescara, seguita da altre vetture, con le insegne
bene in vista, come documentano le fotografie
pubblicate da Angelo Squarti Perla in “Le menzogne
di chi scrive la storia” (BastogiLibri). Il troppo
celebrato Peter Tompkins in “Dalle carte segrete
del Duce” asserisce che «il re e l'intero stato
maggiore, macchiandosi di uno dei più vergognosi
tradimenti della storia, fuggivano a Brindisi per
mettersi sotto la protezione degli Alleati». In
«Tagliare la corda. 9 settembre 1943. Storia di
una fuga» (ed. Solferino) Marco Patricelli rincara
la dose: «Fu una fuga, un abbandono, non fu un
allontanamento e neppure un trasferimento […]
Tagliando la corda, venne reciso senza gloria e
nel peggiore dei modi immaginabili il nodo che
aveva legato una dinastia e un intero sistema ai
destini dell’Italia.» La realtà dei fatti è ben
diversa. Il Re e Badoglio decisero di trasferirsi
nella Puglia meridionale poiché lì non vi erano
ancora Alleati e i militari italiani stavano
cacciando i tedeschi, come a Bari, ove presero il
controllo del porto guidati dal valoroso generale
Nicola Bellomo. A Roma i Granatieri di Sardegna
dalla notte dell'8 settembre si batterono contro i
tedeschi per alto senso del dovere verso la
Patria, come ricorda Luigi Franceschini in “50
anni dopo” (ed. fuori commercio, 1993).
Altrettanto avvenne altrove. Risulta altresì
destituita di fondamento l'insinuazione di un
accordo segreto tra Badoglio e il maresciallo
Kesselring che avrebbe lasciato sfilare il
convoglio reale in cambio del “via libera” sulla
capitale. La posta in gioco non era Roma ma lo
Stato. Con la partenza da Roma per la Puglia il Re
salvò la continuità dello Stato, riconosciuto
dalle Nazioni Unite.
In coincidenza con la proclamazione
della resa, gli Alleati iniziarono lo “sbarco
principale” nella piana di Salerno con forze
inadeguate e rischiarono di essere rigettati in
mare. Quarant'anni or sono lo documentò Massimo
Mazzetti. Il pomeriggio del 9 il Re presiedette a
Pescara la breve riunione dei vertici militari che
decise la partenza per la Puglia, con imbarco la
sera. Alle 21:50 il comando supremo italiano
informò quello alleato: «We are moving to Taranto.
We shall re-establish communications tomorrow 10
September, we repeat 10 September. Greetings».
Alle 16:57 del 10 Eisenhower ripose a Badoglio:
«L’intero futuro ed onore dell'Italia dipendono da
ciò che le sue forze armate sono ora pronte a
fare. Se l'Italia, dal primo all'ultimo uomo, si
alza ora prenderemo ogni tedesco per la gola. Vi
propongo con urgenza a fare perciò un richiamo
squillante a tutti gli italiani amanti della
Patria.» Il presidente degli USA e il premier
britannico Churchill lo stesso giorno si
congratularono con Badoglio che l'11 assicurò da
Brindisi «tutto quello che è possibile è, e sarà
fatto con quello stesso spirito e con quella
stessa tenacia che esplicammo insieme sui campi di
battaglia d'Italia e di Francia durante la grande
ultima guerra». Il 15 esortò il capo della
Missione militare alleata in Italia, Mason
MacFarlane, a far sapere al mondo «che gli Alleati
considerano ormai l'Italia come uno Stato che
collabora spontaneamente sul piano militare».
In margine all'“armistizio lungo”
Risalire la china era però un cammino
ancora irto di ostacoli. Proprio perché ebbe
cognizione diretta e gli venivano documentate le
angherie degli Alleati ai danni degli italiani, il
21 settembre Vittorio Emanuele III scrisse a
Roosevelt e a Giorgio VI di Gran Bretagna
invitandoli ad affrettare il suo ritorno suo in
Roma: «L’esercizio del potere civile su di una
notevole parte del territorio nazionale
consentirebbe, fornendo una maggior scelta di
uomini politici, la ricostruzione politica del
Paese da completarsi col ritorno al regime
parlamentare da me sempre auspicato.» A quel modo
sarebbe stato contrastato efficacemente «il nuovo
governo fascista, sia pure illegalmente
costituito».
Da pochi giorni, infatti, prelevato
il 12 settembre a Campo Imperatore sul Gran Sasso
da un “commando” tedesco, trasferito in Germania e
riportato in Italia sotto controllo di Hitler,
Mussolini aveva proclamato lo Stato fascista
repubblicano, poi Repubblica sociale italiana.
Rimane senza risposta l'interrogativo sulla
mancata custodia dell'ex dittatore da parte di
Badoglio. È possibile che questi fosse sicuro
della sua innocuità sulla base della lettera
scrittagli il 26 luglio da Mussolini stesso,
desideroso di trasferirsi in qualsiasi momento a
Rocca delle Caminate. Mentre gli dichiarò «da
parte mia non solo non gli verranno create
difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile
collaborazione», l'ex duce gli augurò il successo
del grave compito al quale si accingeva «per
ordine ed in nome di S.M. il Re, del quale durante
21 anni sono stato leale servitore, e tale
rimango».
Alle 10:50 del 29 settembre nel
quadrato della nave britannica “Nelson” ancorata a
Malta Eisenhower e Badoglio sottoscrissero i 44
articoli del cosiddetto armistizio lungo, scritto
in agosto contemporaneamente a quello corto e
immutabile. In 65 minuti, comprensivi di una pausa
per sorbire bibite, Badoglio, Ambrosio, Roatta,
Sandalli e De Courten per l'Italia, Eisenhower,
l'ammiraglio Cunningham e i generali Alexander,
MacFarlane e Gort per gli anglo-americani, a
margine della firma si confrontarono sulle
prospettive. Il comandante in capo degli Alleati
esortò Badoglio a dichiarare guerra alla Germania
per tutelare i militari altrimenti passibili di
fucilazione come “partigiani”. Il maresciallo
assicurò che ne avrebbe riferito al Re, poiché la
dichiarazione di guerra era sua prerogativa
esclusiva e propose il rientro in Italia di Dino
Grandi, suscitando perplessità dell'interlocutore,
che a sua volte esortò a ricevere e a valorizzare
Carlo Sforza, poco gradito al Re per le sue
dichiarazioni antimonarchiche (ancorché fosse
Collare della SS. Annunziata e senatore). Di
concerto con Alexander aggiunse «di poter ritenere
che la liberazione di Roma sarà abbastanza
presto». Avvenne il 5 giugno1944. Badoglio chiese
anche di far parlare da Londra il maresciallo
Giovanni Messe, già aiutante di campo del Re (e
massone, anche se nessuno lo disse). Eisenhower
assentì malgrado gli inglesi.
Nelle settimane seguenti gli Alleati
ostacolarono in molti modi la riscossa del regno
d'Italia, lesinando gli aiuti per la
riorganizzazione dell'esercito. Il 13 ottobre
Vittorio Emanuele III dichiarò guerra alla
Germania. Come l'indomani scrisse Badoglio, così
si chiuse «il periodo di armistizio e quello di
cooperazione, durato complessivamente trentacinque
giorni, per entrare nel terzo periodo, quello
della co-belligeranza». Il maresciallo sintetizzò
il quadro nel campo militare, alternanza di pagine
negative («difesa sfortunata di Corfù e
Cefalonia») e positive, e in quello politico con
«il concorso alla causa dei vari partiti di
patrioti nelle Nazioni invase». Nessun cenno alla
situazione interna. Agli occhi dei più questa
risultava deludente. E non solo perché il Comitato
centrale di liberazione presieduto da Ivanoe
Bonomi gli negava ogni collaborazione ma
soprattutto perché, come il 4 ottobre scrisse il
primo segretario di legazione, Antonio Venturini,
«la grande maggioranza della gente (militari,
funzionari, uomini di governo, intellettuali,
privati di ogni genere, ecc.) ha l'impressione – e
questa impressione va sempre più estendendosi –
che il Governo sta seguendo una politica dilatoria
e che, per ora, preferisca non affrontare numerosi
problemi che assillano la vita del paese».
Aveva veduto lungo Vittorio Emanuele
III quando il 7 settembre confidò all'aiutante di
campo che l'azione di Badoglio era «indecisa e
poco sincera. Non è certamente un uomo all'altezza
del momento». Paolo Puntoni ne ebbe conferma la
sera dell'8 allorché il re osservò: «l’armistizio
è accettato, ma Badoglio che rappresenta il
governo non impartisce alcuna disposizione per
fronteggiare gli avvenimenti che incalzano».
Anche in regime di cobelligeranza il
futuro, dunque, rimaneva fosco.
Perché per anni gli italiani avevano plaudito
“Lui”?
Ma la “responsabilità” non era solo
di chi governava e meno ancora del Capo dello
Stato, re costituzionale. Investiva tutti i
cittadini. Dal 1913 i maschi erano titolari del
diritto di voto. Eleggevano la Camera, che a sua
volta conferiva o negava la fiducia ai governi.
Non erano “innocenti”, come non lo erano i partiti
nei quali si riconoscevano. Tutti avevano avuto le
loro responsabilità, anche nell'avvento e nella
durata del regime mussoliniano dal 3 gennaio 1925
alla catastrofe dell'estate 1943. Ci rifletté
Benedetto Croce confidando al Diario le sue
riflessioni su Mussolini, «di corta intelligenza»,
privo di sensibilità morale, vanitosissimo, sempre
fra il pacchiano e l'arrogante. «Ma egli –
aggiunse – chiamato a rispondere del danno e
dell'onta in cui ha gettato l'Italia, con le sue
parole e la sua azione come con tutte le sue arti
di sopraffazione e di corruzione, potrebbe
rispondere agli italiani come quello sciagurato
capopopolo di Firenze, di cui parla Giuseppe
Villani, il qual rispose ai suoi compagni d'esilio
che gli rinfacciavano di averli condotti al
disastro di Montaperti: “E voi, perché mi avete
creduto?”» Le piazze stracolme di folla plaudente
al duce sono motivo perenne di riflessione e un
monito sempre attuale.
Aldo A. Mola
Didascalia: Pietro Badoglio (Grazzano
Monferrato, poi Grazzano Badoglio, 28 settembre
1871-1° novembre 1956, marchese del Sabotino,
duca di Addis Abeba, capo del governo dal
25 luglio 1943 al 18 giugno 1944) legge la
dichiarazione di Guerra alla Germania (Brindisi,
13 ottobre 1943). Alla sua destra il generale
Maxwell Taylor. I Verbali dei suoi governi sono
pubblicati a cura di Aldo G. Ricci (Poligrafico
dello Stato).