Editoriale di Aldo
A. Mola pubblicato su "Il Giornale del Piemonte
e della Liguria" di domenica 31 dicembre 2023
L'editoriale di domenica scorsa ha chiarito che
l'ordine del giorno Grandi-Bottai-Federzoni
approvato a larga maggioranza dal Gran consiglio
del fascismo alle 2.40 del 25 luglio 1943 non mirò
affatto a smantellare il regime fascista né influì
sulla decisione di Vittorio Emanuele III di
revocare Benito Mussolini da capo del governo e di
sostituirlo con il maresciallo Pietro Badoglio. Da
tempo il Re aveva deciso di propria volontà, nella
consapevolezza che per avviare trattative
armistiziali con gli anglo-americani era
necessario mettere fine al regime. Allo scopo si
valse di una “trafila” di militari.
La trafila militare
Su impulso di Vittorio Emanuele III e di concerto
con il ministro della Real Casa Pietro
d'Acquarone, il capo di stato maggior generale
Vittorio Ambrosio col concorso di militari di
piena fiducia, come il generale Giuseppe
Castellano e il comandante generale dei
carabinieri Angelo Cerica, allestì il piano per
“far sparire” Mussolini: non per ucciderlo, come
taluno interpreta, ma per “fermarlo” e isolarlo,
in modo che non potesse capitanare o essere
riferimento di opposizione alle decisioni del Re.
Il progetto risultò analogo a quello prospettato
da Ivanoe Bonomi (1873-1951) a Vittorio Emanuele
III il 2 giugno. Revocato Mussolini e formato un
governo militare, con a capo Ambrosio, Badoglio o
il maresciallo Enrico Caviglia, glorioso e
prestigioso ma “troppo vecchio” a giudizio del Re,
secondo Bonomi occorreva “tenere in arresto”
Mussolini, “per evitare che possa, con la milizia
armata, gettare il Paese nella guerra civile”. Il
nuovo governo doveva “invalidare l'alleanza con la
Germania” perché non era “fra due Stati e due
popoli, ma fra due regimi, fra due rivoluzioni”,
la fascista (da chiudere con la revoca di
Mussolini) e la nazionalsocialista, invisa alla
maggioranza degli italiani. “La nazione ha sempre
diritto di fare ciò che vuole” osservò il Re. Però
non commentò l'ulteriore sollecitazione di Bonomi:
se aggredita dai tedeschi col pretesto di
“tradimento”, l'Italia doveva “chiedere l'aiuto
anglo-americano ed entrare nell'alleanza delle
Nazioni unite”. Parve stanco, sfiduciato e lamentò
salute malferma. “Deluso”, Bonomi concluse che o
dissimulava abilmente o non aveva un proposito
chiaro. Identica impressione ne trasse il liberale
Marcello Soleri che, ricevuto l'8 giugno, esortò
il Re a un “intervento risolutivo” anche per
scrollarsi di dosso l'addebito di connivenza con
il fascismo, serpeggiante specialmente nei
giovani. Il 16 luglio Soleri apprese da Acquarone
che il sovrano aveva deliberato di formare un
governo tecnico-militare guidato da Badoglio.
Prevalsero due sole certezze: Vittorio Emanuele
III rimaneva impenetrabile e quando avesse deciso
avrebbe incaricato Badoglio di formare un governo
tecnico-militare.
Sulla preferenza di Badoglio rispetto
ad Ambrosio e a Caviglia sono state ricamate molte
narrazioni. Secondo una tra più suggestive il Re
scartò Caviglia perché si sarebbe detto che
“tornava la Massoneria”. L'affermazione è poco
convincente perché Caviglia era cattolico
praticante e quindi, per l'epoca, incompatibile
con la “Setta Verde”. Benché avesse motivo di non
fidarsene ciecamente, il Re optò per Badoglio
poiché sapeva dei suoi contatti con gli inglesi,
ai quali, documenta Elena Aga Rossi, aveva
rivelato di non ritenersi più vincolato a Casa
Savoia e pronto a sostituire Mussolini.
Il voto del Gran consiglio colse di
sorpresa gli antifascisti “moderati”. Quale linea
dovevano tenere dopo il “colpo di Stato”? De
Gasperi persuase tutti. Si trattava di “liquidare
due diverse partite: l'abbattimento di Mussolini e
del fascismo e la conclusione di un accordo con
gli anglo-americani. La prima partita (era) attiva
per gli uomini politici chiamati a liquidarla”.
Essi avrebbero acquistato un titolo di benemerenza
del Paese. La seconda invece era “passiva”.
L'“accordo armistiziale” si prospettava difficile,
gravido di “responsabilità penose per i suoi
negoziatori”. Sarebbe stato un errore accollarsene
la corresponsabilità. Meglio, quindi, rimanere “in
attenta osservazione”. Va ricordato che i
maggiorenti delle correnti (non ancora “partiti”)
rappresentate da Bonomi e dai suoi sodali nel
novembre 1922 avevano votato a favore del governo
Mussolini. Capogruppo del partito popolare alla
Camera dei deputati, De Gasperi aveva dichiarato
il sostegno al duce. Casati (1881-1955) era stato
ministro della Pubblica istruzione con Mussolini
dopo il “delitto Matteotti”.
Il 28 luglio in casa di Giuseppe
Spataro le sei correnti (liberale, democratica,
cattolica, di azione, socialista e comunista)
incaricarono Bonomi di illustrare le “questioni” a
loro avviso “urgenti” a Badoglio, capo del
“governo militare del Paese, con pieni poteri” e
il 29 si costituirono in comitato nazionale. Dalla
“osservazione” passarono dunque al “colloquio” col
Maresciallo, che però mostrava “molta inesperienza
politica, ma molta buona volontà”.
Badoglio al potere
Come documentano i Verbali del Consiglio dei
ministri pubblicati e ottimamente curati da Aldo
G. Ricci (“Governo Badoglio, 25 luglio 1943-22
aprile 1944”, ed. Presidenza del Consiglio dei
Ministri, 1994) nella sua prima riunione, il 27
luglio 1943, il governo approvò schemi di decreti
legge che voltarono pagina nella storia d'Italia:
soppressione del Partito nazionale fascista, del
Gran consiglio del fascismo e del Tribunale
speciale per la difesa dello Stato; scioglimento
della Camera dei fasci e delle corporazioni;
sostituzione di Giacomo Suardo con il grande
ammiraglio Paolo Thaon di Revel alla presidenza
del Senato; nomina del generale Quirino Armelini
al comando della Milizia volontaria di sicurezza
nazionale, che assunse per distintivo le stellette
dell'esercito al posto dei fasci; abrogazione
delle norme contenenti limitazioni in dipendenza
dello stato di celibi e un ampio movimento di
prefetti. Mentre vennero collocati a riposo i più
noti fiancheggiatori di Mussolini, altrettanti
furono richiamati in servizio. Carmine Senise fu
nominato capo della Polizia, militarizzata e
sottoposta alla legge penale militare.
Qualunque opinione si voglia avere su
Badoglio, va constatato che una mole così ampia di
misure di vasta portata ebbe lunga gestazione. Il
divieto di fabbricazione, esposizione, commercio e
diffusione di emblemi e distintivi di associazioni
e partiti politici di qualunque specie e
denominazione fu pprovato ma (come ricorda Ricci)
non ebbe seguito. Altro premeva. Lo “stato di
guerra” fu esteso a tutto il territorio nazionale
e il capo di stato maggiore dell'esercito, Mario
Roatta, diramò la circolare che vietò ogni
manifestazione e ne ordinò lo scioglimento “manu
militari”. Anche dimostrazioni di giubilo per la
“caduta di Mussolini” vennero represse con morti e
feriti. Badoglio ebbe due obiettivi: disperdere
drasticamente prevedibili proteste a favore di
Mussolini e del fascismo e mostrare all'estero che
aveva il controllo dell'ordine pubblico e contava
sul consenso del Paese. Quest'ultimo era
particolarmente rilevante sia nei rapporti con la
Germania, di cui l'Italia continuò a dirsi alleata
dichiarando “la guerra continua” (formula
suggerita da Vittorio Emanuele Orlando), sia per
gli anglo-americani.
Il 5 il governo tenne la seconda
seduta, ricca di importanti misure: soppressione
del fascio littorio (relatore Badoglio),
funzionamento della giustizia (Gaetano Azzariti),
del corpo diplomatico (Raffaele Guariglia),
organico dei carabinieri (Renato Sorice),
reintegrazione di docenti (Leonardo Severi,
ministro suggerito da Bonomi, come anche Leopoldo
Piccardi) e la devoluzione dei patrimoni di non
giustificata provenienza, mentre i giornali (i cui
direttori erano di nomina post-fascista)
denunciavano i “profitti di regime”.
Verso la resa
Tutte le fonti documentarie, la memorialistica e
persino la narrativa (valga d'esempio “Primavera
di bellezza” di Beppe Fenoglio) descrivono
l'Italia dell'agosto 1943 come Paese “in sospeso”.
Sottoposti a massicci bombardamenti
anglo-americani sulle città più importanti
(Napoli, Milano, Torino, Foggia e, per la seconda
volta, anche Roma) gli italiani anelavano alla
pace. Il governo si trovò tra la dura incudine
delle divisioni germaniche irrompenti col pretesto
di soccorrere l'alleato e il pesante martello
degli anglo-americani che premevano per
costringere l'Italia alla resa senza condizioni
come stabilito a gennaio nella conferenza di
Casablanca. Il Re autorizzò l'avvio di trattative
armistiziali. Con le necessarie cautele per non
insospettire il diffidente alleato, iniziò la
missione del generale Giuseppe Castellano che, via
Madrid, raggiunse Lisbona, vi ebbe contatto con il
Comando anglo-americano e ricevette le condizioni
preliminari imposte dai vincitori (il cosiddetto
“armistizio breve”) che, rientrato a Roma dopo
viaggio altrettanto lungo, consegnò a Badoglio per
il Re.
Mentre continuavano i bombardamenti
“pedagogici”, nel corso della conferenza di Quebec
il 18 agosto 1943 il presidente degli Stati Uniti
d'America Franklin Delano Roosevelt e il premier
britannico Winston Churchill dichiararono che “la
misura nella quale le condizioni (di resa) saranno
modificate in favore dell'Italia dipenderà
dall'entità dell'apporto dato dal Governo e dal
popolo italiano alle Nazioni Unite contro la
Germania durante il resto della guerra”. Gli
italiani avrebbero ricevuto tutto l'aiuto
possibile delle Nazioni Unite ovunque avessero
combattuto contro i tedeschi. Al momento
dell'armistizio il governo di Roma doveva ordinare
alla flotta e agli aerei di consegnarsi agli
alleati. Dai porti del nord le navi dovevano
recarsi “nei porti a sud della linea
Venezia-Livorno”. Era quindi lecito ritenere che
gli anglo-americani si sarebbero attestati a nord
di Roma e di Firenze.
L'11 agosto al Comitato delle
correnti antifasciste Bonomi concluse che “se si
dovrà chiamare il popolo per cacciare i tedeschi
dall'Italia, si dovrà farlo quando gli
anglo-americani avranno messo piede in Italia, non
prima. Prima si sciuperebbe lo slancio popolare e
si verserebbe inutile sangue” . Al tempo stesso
decise il “distacco dal governo Badoglio”, che la
pensava come loro.
La “trafila massonica”: realtà o fantasia?
Il 12 Bonomi lasciò Roma per Santa Marinella. Vi
tornò il 19. Ricevutolo a colloquio il 20, più per
sapere che per dire, Guariglia non lasciò
trapelare alcunché sulla missione Castellano. Il
21 Bonomi incontrò con Ruini (1877-1970) Carlo
Galli (1878-1966), nuovo ministro della Stampa e
Propaganda. “Decidiamo di darci del tu, in ricordo
dell'antica compagnanza” annotò nel “Diario”. Di
quale natura era?
Per comprenderlo occorre tornare ai
loro anni giovanili. Laureato in legge, avviato a
prestigiosa carriera diplomatica, il 24 maggio
1905 Galli fu ricevuto apprendista massone nella
loggia “Rienzi” di Roma, una tra le più importanti
non solo della capitale d'Italia. In quella stessa
officina cinque anni prima con il grado di maestro
era stato affiliato Ruini, futuro presidente della
Commissione dei Settantacinque che stilò la
“bozza” di costituzione della Repubblica italiana.
In quell'incontro i due confratelli formarono con
Bonomi un triangolo massonico? L'interrogativo si
impone anche alla luce dell'opera di Paolo Cacace
“Come muore un regime” (ed. il Mulino), ricco di
riferimenti a massoni nel collasso del regime
mussoliniano. Secondo lui, “a quanto pare” anche
Bonomi era iniziato.
È vero che il massone non è tenuto a
dichiararsi pubblicamente tale ed è invece tenuto
a non propalare i nomi dei confratelli, però
Bonomi non ha mai fatto cenno alla propria
iniziazione. Nel vasto repertorio “La massoneria
nel Parlamento “ (ed. Morlacchi) Luca Irwin
Fragale lo inserisce tra i deputati massoni, ma
con molte riserve perché la sua appartenenza è
asserita senza prove consistenti. Non solo. In
risposta alla famigerata “inchiesta sulla
Massoneria” condotta dall'“Idea nazionale” nel
1912 Bonomi dichiarò che “se la Massoneria insiste
a mantenersi segreta e a circondarsi di riti e di
formule che oggi fanno sorridere, essa obbedisce,
forse inconsciamente, a quello spirito di mistero
e di ossequio superstizioso che venne diffuso e
mantenuto per tanti secoli dalla Chiesa”. Quanto
all'“ideario” massonico rispose: “Non so, non
avendovi mai appartenuto, se la Massoneria abbia
una sua filosofia più incline al materialismo che
allo spiritualismo, all'internazionalismo che al
nazionalismo” e aggiunse: “ogni azione palese od
occulta di partiti, di sette, di associazioni
pubbliche o segrete nelle amministrazioni dello
Stato è sempre profondamente dannosa”. Di varie
personalità politiche e militari citate da Cacace
come massoni si hanno prove sicure. N sono invece
del tutto priva quelle di Badoglio, che Cacace
classifica “massone coperto”, mentre Diaz
risulterebbe “in odore di massoneria”, che non
dice nulla di attendibile. Dalla nascita
(1860/1864) allo scioglimento (1925) il Grande
Oriente d'Italia (GOI) non ebbe mai massoni
“coperti”. Quelli iniziati “sulla spada” dal gran
maestro o suo delegato (come nel caso di Antonio
Meucci) e gli stessi affiliati alla “Propaganda
massonica” furono iscritti nei piedilista delle
logge e poi nella Matricola generale dell'Ordine,
lacunosa per difetto come molte cose umane.
Massoni furono i generali
Luigi Capello, Giacomo Carboni, Gustavo Pesenti e
Ugo Cavallero, iniziato al GOI e poi regolarizzato
nella Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI), lo
stesso anno dell'iniziazione di Vittorio Valletta
(1917). Lo furono l'avvocato Carlo Aphel (il cui
“complotto” è stato spesso sopravvalutato) ed Elia
Rossi Passavanti (la cui iniziazione non è citata
da Cacace). Invece non lo furono affatto Marcello
Soleri, i generali Giuseppe Castellano, Angelo
Cerica e il grande Giuseppe Volpi di Misurata,
contrariamente a quanto scrive Cacace, che non
adduce prove. Malgrado le leggende, altrettanto va
detto di tre dei quadrumviri. Balbo era
notoriamente massone della GLI, ma in sonno da
molto prima della “marcia”. Emilio De Bono non
compare in alcun repertorio massonico. Michelino
Bianchi, al pari del cattolico Cesare Maria De
Vecchi, fu antimassone. Iniziato alla GLI fu
invece il generale Fernando Soleti, forzatamente
condotto a Campo Imperatore per garantire
l'incolumità di Mussolini all'arrivo dei tedeschi
capitanati da Otto Skorzeny.
Ciò che più conta, al di là del
massonismo di questo o quel gerarca o notabile, è
l'assenza di un sia pur labile indizio di una rete
che unisse i massoni in un disegno univoco. La
genesi massonica del “combinato disposto” Gran
consiglio/iniziativa del Re è una leggenda di
frange della Repubblica sociale italiana,
insufflate da uno spretato massofago professionale
che non si nomina, incline a vedere ovunque la
regìa occulta dei Figli della Vedova: capofila dei
complottisti oggigiorno in servizio permanente
effettivo. Per cercare di ridimensionare Mussolini
e salvare se stessi i gerarchi partecipi al Gran
consiglio del 24-25 luglio non avevano bisogno di
essere assistiti dal Baphomet. Bastavano le
notizie sull'avanzata degli anglo-americani in
Sicilia e la tardiva cognizione dell’enormità
degli errori commessi da Mussolini sin dalla
guerra d'Etiopia e soprattutto dal 1938 in poi e
infine con le dichiarazioni di guerra all'URSS e,
non bastasse, agli USA: una potenza che non
attendeva altro per entrare nel Mediterraneo a
spese non solo delle ambizioni
tardonazionalistiche del fascismo ma anche di
Francia e Gran Bretagna, il declino dei cui imperi
coloniali datò dalla fine della nuova guerra dei
trent'anni (1914-1945).
La solitudine del Re
In conclusione, protagonista della svolta del
luglio 1943 fu Vittorio Emanuele III che si valse
di militari ligi al giuramento di fedeltà al Re.
Nelle loro bandiere non comparvero mai i fasci
littori che avevano invece inondato le
amministrazioni pubbliche, statali e locali, dando
all'estero l'immagine di una compattezza che
rimase solo di facciata, come si vide nel 1943,
proprio quando il partito aveva raggiunto il
massimo storico degli iscritti. Perciò gli
anglo-americani ostacolarono la riorganizzazione
delle forze armate regie e isolarono il Re, con la
connivenza non solo dei cattolici, che vi vedevano
il nipote dello scomunicato Vittorio Emanuele II,
debellatore dello Stato pontificio, ma anche di
tanti “liberali” che sorsero a pretendere
l'immediata abdicazione sua, la rinuncia di
Umberto alla successione e il passaggio della
corona a Vittorio Emanuele, principe di Napoli, di
soli sette anni e quindi sotto tutela di un
reggente antistatutario in assenza della Camera
dei deputati e nell'impossibilità di adunare il
Senato.
Nel dicembre 1943 Nicolò Carandini
dichiarò a Bonomi che i liberali volevano “una
monarchia pulita e non un cencio sporco come è
l'attuale sovrano”. Il colpo di Stato strisciante,
dopo il discusso referendum istituzionale del 2-3
giugno 1946, vide infine l'Italia inchiodata dalle
durissime clausole del Trattato di pace impostole
a Parigi il 10 febbraio 1947: il “passivo” ricadde
su chi aveva pensato di scaricarlo su Vittorio
Emanuele III, cittadino all'estero nella pienezza
dei diritti civili e politici, e su Umberto II,
migrato in Portogallo.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Sotto la data del 24 luglio Bonomi
(nell'illustrazione affiancato da Vittorio
Emanule Orlando e da Francesco Saverio Nitti)
annotò: “Oggi alle 17 viene da me un noto
antifascista, il dottor Domenico Maiocco
piemontese, che è molto in intimità con il
quadrumviro De Vecchi. Egli mi conferma che il
Gran consiglio del fascismo si convoca proprio
nell'ora in cui egli mi parla e che le
deliberazioni dell'assemblea saranno di
eccezionale importanza”. Tramite Maiocco, De
Vecchi desiderava fargli sapere che sarebbe
stato amichevolmente invitato a far parte del
nuovo governo dopo la prevista revoca di
Mussolini. Rispose che gli pareva “un romanzo”,
“sogno di menti oscurate”. Iniziato massone nel
1923 nella loggia “Vita Nova” di Alessandria,
socialista e perseguitato dal regime, Maiocco
fondò la Massoneria Italiana Unificata, già
auspicata da Placido Martini, antifascista,
ucciso alle Fosse Ardeatine, e ne fu gran
maestro, riconosciuto dal Supremo Consiglio del
Rito scozzese antico e accettato degli USA
(giurisdizione sud). Ne ha scritto il generale
Antonino Zarcone in “Lo sconosciuto messaggero
del colpo di Stato” (ed. Annales, 2015).